sabato, Maggio 4

LE PAROLE VIETATE DAL NEW YORK TIMES SU PALESTINA, GAZA E ISRAELE E QUELLE CHE SI DEVONO USARE… W LA DEMOCRACIA USA

di Redazione

Ci siamo: il Grande Fratello di Orwell esiste e sta negli USA. Noi sporchi comunisti lo sapevamo da tempo e lo abbiamo sempre saputo. Quello che è stato denunciato da The Intercept ovvero l’esistenza di un decalogo sulle parole da usare e non usare riguardo la Palestina, Israele, Gaza, è l’ulteriore dimostrazione degli effetti dannosi per la democrazia e la libertà d’informazione – anche se nutriamo seri dubbi della loro precedente esistenza – che quel genocidio israeliano sta provocando in tutto l’Occidente.

Stanno cadendo le maschere della propaganda massocapitalista su Israele come Stato democratico, sulla libertà di stampa in Occidente, sulla democrazia perché si vota, ecc…

Speriamo che l’articolo che rilanciamo di Eric Salerno su REMOCONTRO, https://www.remocontro.it/2024/04/19/il-decalogo-del-nytimes-sulle-parole-da-usare-per-israele-e-gaza/ sia utile per iniziare una seria riflessione sul significato delle parole LIBERTA’ e ANTIFASCISMO, alla luce di quello che è accaduto a molti giornalisti e a Luciano Canfora, denunciato dalla Meloni per le sue opinioni sulla kapa del governo, visto che mancano 4 giorni al 25 APRILE.

Ora e sempre RESISTENZA

REMOCONTRO

19 Aprile 2024

Il decalogo del ‘NYTimes’ sulle parole da usare per Israele e Gaza

di Eric Salerno

«The Intercept» denuncia il decalogo del New York Times da usare per Israele e Gaza. Secondo i giornalisti indipendenti, per l’importante quotidiano di ispirazione progressista non si può parlare di ‘genocidio’, di ‘pulizia etnica’, né di ‘territorio occupato’. Usare poco la parola Palestina ed evitare assolutamente ‘Campi profughi’. Eric Salerno, ‘Una voce da New York’.

 ‘All the News That’s Fit to Print’

Sempre più spesso, nel bene e nel male, i fatti di oggi riportano alla memoria episodi in qualche modo simili del passato. «All the News That’s Fit to Print»: sette parole in inglese, probabilmente le più famose del giornalismo, le vedevo tutti i giorni sulla prima pagina, in alto accanto alla testata, sulla copia del New York Times che mio padre portava a casa nel Bronx quando tornava dopo un’intensa giornata di lavoro a Manhattan. «Tutte le notizie che possono essere stampate».

Da 127 anni in pagina

Dal febbraio 1897, il motto non si è più mosso dalla prima pagina del quotidiano e da anni, come scrisse qualche anno fa un docente universitario americano, «è ammirato come una dichiarazione di intenti senza tempo, è stato interpretato come un ‘grido di guerra’ per l’onestà del giornalismo e preso in giro come pretenzioso, esagerato e incredibilmente vago».

Tutte le notizie possono essere stampate?

Crescendo e imboccando il mestiere del giornalista cercavo di adeguare il mio comportamento alle interpretazioni positive di quelle sette parole anche mentre vedevo sempre di più che spesso, troppo spesso, le nostre interpretazioni dei fatti non corrispondevano necessariamente alla realtà. E, soprattutto, il giornale newyorkese, come la maggioranza dei quotidiani del mondo, non sempre si interessava dei fatti che valeva la pena raccontare e non sempre quelli che raccontava valeva la pena leggere.

La parole giuste per descrivere i fatti

Il bambino-ragazzo innamorato di un mestiere era cresciuto. Ed erano cresciuti anche i termini, gli aggettivi, le parole usate per descrivere fatti e persone. Come quando – piccola cosa forse – il mio primo direttore mi criticò quando scrisse la storia di un «vecchio ammazzato e trovato per strada». «Non si dice vecchio – disse – la parola giusta e che non offende nessuno è: anziano».

Lo ‘sconto’ NYTimes a Israele

Molti giornali hanno a disposizione dei redattori un dizionario-decalogo con le parole da usare e quelle bandite perché scorrette o disturbanti. L’altro giorno, un noto gruppo di lavoro statunitense formato da giornalisti indipendenti, «The Intercept», ha denunciato una specie di decalogo interno del NY Times che impone ai suoi dipendenti di usare alcune parole e altre no, di raccontare alcune verità e altre no.

Il motto di ‘The Intercept’ è forse presuntuoso ma chiaro: «Indaghiamo su individui e istituzioni potenti per esporre la corruzione e l’ingiustizia. Vediamo il giornalismo come uno strumento di azione civica. Siamo qui per cambiare il mondo, non solo per descriverlo»

Il documento NYTimes diffuso da Intercept

  • IL NEW YORK TIMES ha dato istruzioni ai giornalisti che si occupano della guerra di Israele nella Striscia di Gaza di limitare l’uso dei termini ‘genocidio’ e ‘pulizia etnica’, e di evitare l’espressione ‘territori occupati’ nel descrivere la terra palestinese, secondo una copia di una nota interna ottenuta da The Intercept.
  • Il promemoria dà inoltre istruzioni ai giornalisti di non usare la parola Palestina, ‘tranne in casi molto rari’, e di evitare il termine ‘campi profughi’ per descrivere le aree di Gaza storicamente abitate da palestinesi sfollati espulsi da altre parti della Palestina durante i precedenti precedenti arabo-israeliani.
  • Il promemoria è scritto dall’editore degli standard del Times Susan Wessling, dall’editore internazionale Philip Pan e dai loro delegati. Mentre il documento viene presentato come uno schema per ‘mantenere principi giornalistici oggettivi nel riferire sulla guerra di Gaza’, diversi membri dello staff del Times hanno detto a The Intercept che alcuni dei suoi contenuti mostrano prove della deferenza del giornale nei confronti delle narrazioni israeliane.

«È il genere di cose che sembrano professionali e logiche se non si ha conoscenza del contesto storico del conflitto israelo-palestinese»

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