
di Redazione
Il libro che oggi consigliamo L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza di Friedrich Engels è un testo fondamentale per superare quella strumentale posizione che vuole il socialismo relegato nel mondo delle utopie irrealizzabili, come L’Utopia di Tommaso Moro, oppure la Repubblica di Platone, La città del Sole di Tommaso Campanella. Questo libro spiega in modo inequivocabile e sintetico cos’è il materialismo storico scientifico ed è utile per una larga diffusione del socialismo scientifico.
Ringraziamo https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1880/evoluzione/pref.htm per il lavoro svolto per la pubblicazione del testo di Engels e messa comunisticamente in rete.
Buona lettura
L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza
di Friedrich Engels
Prefazione alla Iª edizione tedesca
Questo scritto consta di tre capitoli del mio Anti-Dühring (Lipsia, 1878). A richiesta del mio amico Paul Lafargue1 li ho raccolti a suo tempo per una traduzione in francese, e ci ho fatto certe aggiunte. La traduzione francese, da me riveduta, uscì nella Revue socialiste, e poi come opuscolo a parte intitolato: Socialisme utopique et socialisme scientifique, (Parigi, 1880). Sulla base della traduzione francese, è da poco apparsa a Ginevra una nuova versione in polacco, intitolata: Socyjalizm utopijny a naukowy (Imprimerie de l’Autore, Ginevra, 1882).
Il sorprendente successo della traduzione di Lafargue in paesi francofoni (specie in Francia) mi fece pensare se per caso fosse altrettanto utile un’analoga edizione tedesca separata di questi tre capitoli. Proprio allora la redazione del Sozialdemokrat2 di Zurigo mi avvertì che tutto il Partito socialdemocratico tedesco reclamasse l’edizione di nuovi opuscoli di propaganda, e mi chiese se potessi destinar a tal uopo quei tre capitoli. Beninteso acconsentii, e posi a disposizione il mio lavoro. Ma esso non era stato scritto in origine per la propaganda immediata fra il popolo. Come poteva divenir divulgativo un lavoro ispirato a puri intenti scientifici? Quali cambiamenti nella forma e nel contenuto erano necessari?
Quanto alla forma, potevano preoccupare i numerosi forestierismi. Ma già Lassalle3 ne era pieno nei suoi discorsi e nei suoi opuscoli di propaganda, e non so di alcuno pentitosi di avermi letto per questo. Da quel tempo i nostri operai leggono con regolarità sempre maggiore i giornali familiarizzandosi coi forestierismi. Così mi sono limitato a togliere dal mio scritto solo i forestierismi inutili; e circa quelli impossibili da toglier ho evitato di metterci le cosiddette note esplicative. Infatti i forestierismi (specie le espressioni scientifiche e tecniche, universalmente accettate) non sarebbero inevitabili se fossero traducibili. Ma allora la traduzione ne falsa il significato: anziché chiarirlo, lo rende oscuro. In tali casi riesce di gran lunga più proficuo cercare un chiarimento orale.
Quanto al contenuto, invece, credo che non riuscirà difficile agli operai tedeschi. Il capitolo 3 è sì difficile, ma assai più per i borghesi “colti” che per gli operai di cui essa compendia le condizioni di vita. Infatti le aggiunte esplicative sono pensate per lettori “colti”, gente come l’onorevole deputato von Eynern, il signor consigliere segreto Heinrich von Sybel e altri Treitschke4, dominati dall’irresistibile furore di dar prova pubblica della loro atroce ignoranza, coi loro colossali equivoci sul socialismo. Don Chisciotte giostra contro i mulini a vento perché è suo officio e compito; se lo fa Sancho Panza è imperdonabile. Per siffatti lettori sarà sorprendente trovare in uno schizzo di storia del socialismo: la cosmogonia di Kant-Laplace5; le moderne scienze naturali; Darwin6; nonché la filosofia classica tedesca ed Hegel. Ma il socialismo scientifico è prodotto di marca tedesca e poteva sorgere solo in quella nazione la cui filosofia classica aveva tenuto in vita la tradizione della dialettica cosciente: in Germania*1.
La concezione materialistica della storia e la sua specifica applicazione alla moderna lotta di classe fra proletariato e borghesia erano infatti possibili solo mercé la dialettica. E che i maestri della borghesia tedesca abbiano sommerso nella palude squallida dell’eclettismo la memoria dei grandi filosofi tedeschi e della dialettica da essi affermata costringe noi socialisti ad invocare le scienze naturali moderne come testimoni dell’esistenza reale della dialettica. Noi socialisti tedeschi siamo orgogliosi di discender (nonché da Saint-Simon7, da Fourier8 e da Owen9) da Kant10, da Fichte11 e da Hegel12.
Londra, 21 settembre 1882
Friedrich Engels
Prefazione alla IVª edizione tedesca
È stata confermata la mia previsione che il contenuto di questo scritto non sarebbe riuscito difficile agli operai tedeschi. Dal marzo 1883 (data della Iª edizione) sono state smerciate almeno tre edizioni (10.000 copie in tutto), perfino con le ormai defunte leggi antisocialiste allora vigenti: una nuova prova dell’impotenza dei veti polizieschi contro un movimento pari a quello del proletario moderno.
Dopo la prima edizione tedesca sono apparse altre traduzioni in lingue straniere: una italiana di Pasquale Martignetti, Il socialismo utopistico ed il socialismo scientifico (Benevento, 1883); una in russo, Razvitie naucnavo sozialisma (Ginevra, 1884); una in danese, Socialismens Udvikling fra Utopi til Videnskab (in Socialisk Bibliotek, I Bind, Copenaghen, 1885); una in spagnolo: Socialismo utòpico y socialismo cientìfico (Madrid, 1886); e una in olandese: De Ontwikkeling van het Socialisme van Utopie tot Wetenschap (L’Aja, 1886).
Questa IVª edizione tedesca contiene alcune modifiche trascurabili, eccetto due aggiunte: il primo capitolo su Saint-Simon (troppo corto rispetto a Fourier e ad Owen) è notevolmente ampliato; alla fine del terzo è aggiunta la nuova forma di produzione dei “trust”, divenuta davvero notevole di recente.
Londra, 12 maggio 1891
Friedrich Engel
Prefazione inglese del 1892
Questo scritto è eccerpito da un’opera di maggior mole. Verso il 1875 il dr. Eugen Dühring13, libero docente all’università di Berlino, in modo sùbito e chiassoso annunciò la sua conversione al socialismo, e fornì al pubblico tedesco, oltre a tutta una teoria socialista, tutto un piano pratico di riorganizzazione della società. Ciò implicava scagliarsi contro i suoi predecessori, specie contro Marx, che onorò di una ondata di attacchi furiosi.
Ciò capitò quando le due fazioni del Partito socialista tedesco (eisenacchiani14 e lassalliani15) si erano appena fuse [al Congresso di Gotha nel 1875]16, ottenendo così, oltre a un immenso aumento delle loro forze, la capacità ancora più importante di dirigere tali forze contro il nemico comune. Il Partito socialista era in Germania sulla via di divenir rapidamente un potere forte. Ma, per divenir un potere forte, serviva che l’unità appena realizzata non fosse infranta. Invece il dr. Dühring iniziò apertamente a formare una setta attorno a sé: il nocciolo di un futuro partito separato. Onde era necessario raccogliere il guanto che ci veniva gettato e intraprendere ad ogni costo la lotta, volenti o inviti.
La cosa, benché non difficile, esigeva tempo. Come si sa, noi tedeschi abbiamo una ‘profondità’ [Gründlichkeit] terribilmente pesante, profonda radicalità o radicale profondità, come parvi nomarla. Se un tedesco espone un che ch’ei stima una nuova teoria, è uopo che la elabori in un sistema che abbracci tutto l’universo. Deve dimostrar che i primi princìpi della logica e le leggi fondamentali dell’universo sono esistiti da sempre solo per portar lo spirito umano a tale teoria ora scoperta, che corona tutto. In ciò il dottor Dühring era conforme al tipo nazionale. Nientemeno che un completo Sistema di filosofia (dello spirito, morale, naturale e della storia); un completo Sistema di economia politica e di socialismo; infine una storia critica dell’economia politica (tre grossi volumi in ottavo, grevi di forma di contenuto, tre corpi d’armata d’argomenti schierati in generale contro tutti i filosofi e gli economisti, in particolare contro Marx; in realtà, un tentativo di totale ‘rovesciamento della scienza’): ecco cosa dovevo affrontare! Trattavisi di tutto lo scibile: dai concetti di tempo e spazio al bimetallismo17, dall’eternità della materia e del moto alla caducità delle idee morali, dalla selezione naturale di Darwin all’educazione futura dei giovani. Comunque l’enciclopedicità del mio avversario mi dava l’occasione di sviluppar (in polemica con lui e in forma più sistematica di finora) le opinioni mie e di Marx su tale grande varietà di temi. Ecco la ragione principale che mi indusse a tale compito benché ingrato.
La mia risposta, pubblicata prima in una serie di articoli sull’Avanti18 di Lipsia (organo centrale del Partito socialista), fu poi raccolta in un volume col titolo: La scienza rovesciata dal sig. Dühring. Una IIª edizione apparve a Zurigo nel 1886.
Su richiesta del mio amico Paul Lafargue (attuale deputato di Lilla alla Camera dei deputati francese) adattai tre capitoli di tale libro per farne un opuscolo ch’ei tradusse in francese e pubblicò nel 1880 col titolo: Socialismo utopico e socialismo scientifico. Tradotte dal francese uscirono delle edizioni in polacco e in spagnolo. Nel 1883 i nostri amici tedeschi pubblicarono l’opuscolo nella sua lingua originale. Indi tradotte dal tedesco uscirono le traduzioni italiana, russa, danese, olandese e rumena. Indi, con quest’edizione inglese, l’opuscolo è stato diffuso in 10 lingue. Non so d’un altro scritto socialista (manco il Manifesto comunista del 1848 o Il capitale di Marx) che sia stato tanto tradotto. In Germania ha avuto 4 edizioni per un totale di 20.000 copie.
L’appendice La Marca19 fu scritta per diffondere nel Partito socialista tedesco alcune nozioni elementari sulla storia e lo sviluppo della proprietà fondiaria in Germania. Ciò pareva assai necessario allora: avendo quasi finito di conquistare le masse operaie di quasi tutte le città, tale partito doveva conquistar gli operai rurali e i contadini. Tale appendice è stata inclusa nella traduzione, perché le forme primitive di possesso terriero, comuni a tutte le tribù tedesche, e la storia del loro declino sono meno note in Inghilterra che in Germania. Ho lasciato invariato il testo, senza riferir l’ipotesi recente avanzata da Maksim Kovalevskij20, secondo cui la ripartizione delle terre arate e dei prati fra i membri della Marca fu preceduta un periodo in cui ci fu la loro coltivazione in comune da parte di un’ampia comunità familiare patriarcale, comprendente diverse generazioni (può servire di esempio la Zàdruga degli slavi del Sud, tuttora esistente). La ripartizione delle terre capitò solo quando tale comunità crebbe al punto da render inadatta una lavorazione collettiva. Kovalevskij ha probabilmente ragione, ma il problema è ancora sub judice.
I termini economici usati in questo libro (allorché sono nuovi) corrispondono a quelli usati nell’edizione inglese del Capitale di Marx. Chiamiamo produzione di merci: la fase economica in cui gli oggetti sono prodotti (nonché per l’uso del produttore) per scambiarli, cioè come merci anziché come valori di uso. Tale fase si estende dagli inizi della produzione per lo scambio fino ai giorni nostri. E completa il suo sviluppo solo sotto la produzione capitalistica (cioè a condizione che il capitalista, il proprietario unico dei mezzi di produzione, occupa per un salario degli operai gente priva d’ogni mezzo di produzione eccetto la personale forza-lavoro, e intasca quanto il prezzo di vendita dei prodotti supera le sue spese). Dal Medioevo in poi, dividiamo la storia della produzione industriale in 3 PERIODI. 1. Artigianato: piccoli capi artigiani con pochi garzoni e apprendisti; ogni operaio produce il prodotto completo. 2. Manifattura: un gran numero di operai, riuniti in un grande opificio, produce il prodotto completo secondo i princìpi della divisione del lavoro: ognuno fa solo un’operazione parziale, onde il prodotto è completato solo dopo esser passato dalle mani di tutti. 3. Industria moderna: il prodotto è prodotto da macchine a motore, e l’attività dell’operaio si riduce a sorvegliare e correggere l’azione del meccanismo.21
Friedrich Engels
Note
*1. È un lapsus calami dir: «in Germania». Invece si deve dir: «appo i tedeschi». Infatti la dialettica tedesca era sì indispensabile all’origine del socialismo scientifico come lo erano le evolute condizioni economiche e politiche dell’Inghilterra e della Francia. Lo sviluppo economico e politico della Germania dopo il 1840 (più arretrato di oggi) poteva tuttalpiù offrir delle caricature socialiste. (Cfr. Il Manifesto comunista, III, 1: Il socialismo tedesco o il “vero” socialismo). Il socialismo scientifico divenne un prodotto autenticamente internazionale (anziché esclusivamente tedesco) solo quando le condizioni economiche e politiche in Inghilterra e in Francia si prestarono alla critica dialettica tedesca in modo da ottenere un risultato reale. (Nota di Engels)↩
1. Paul Lafargue [1842-1911]: membro di spicco del Partito operaio francese durante la Comune; membro del Consiglio della Iª Internazionale; genero di Marx (ne sposò la figlia Laura).↩
2. Sozialdemokrat [Zurigo, 1879-1888; Londra, 1889-1890]: organo della socialdemocrazia tedesca. In Germania le leggi antisocialiste (1878-1890) vietavano ogni stampa socialista.↩
3. Ferdinand Lassalle [1825-1865]: avvocato; fondatore dell’ADAV (Associazione generale degli operai tedeschi); capo della corrente riformista della socialdemocrazia tedesca fra il 1862 e il 1864. Su questioni fondamentali ebbe posizioni opportuniste e fu l’iniziatore della tendenza opportunista nel movimento operaio tedesco. Accolse l’unificazione della Germania sotto la Prussia. Propugnò la costituzione di associazioni operaie con l’aiuto dello Stato. È duramente combattuto da Marx (Critica del programma di Gotha), contrario ad ogni nazionalismo. ↩
4. Ernest von Eynern [1838-1906]: grande industriale di Brema e commerciante; deputato al parlamento prussiano dal 1897; autore di opuscoli contro la socialdemocrazia.
Heinrich von Sybel [1817-1895]: storico liberale-nazionalista, di accentuato spirito prussiano.
Heinrich von Treitschke [1834-1896]: storico reazionario prussiano, membro della Camera di Berlino dal 1871 al 1888. ↩
5. Immanuel Kant (Storia universale della natura e teoria del cielo, 1755) e Pierre-Simone Laplace (Esposizione del sistema del mondo, 1796) formularono un SNDM (Solar Nebular Disk Model): un’ipotesi cosmogonica che il sistema solare sarebbe formatosi da una nebulosa primitiva rotante condensatasi. Proseguendo questo raffreddamento, la terra dovrebbe mutare aspetto ed infine morire. ↩
6. Charles Robert Darwin [1809-1882]: naturalista inglese, spiegò l’origine e l’evoluzione delle specie viventi con tre principi (lotta per l’esistenza; influenza dell’ambiente; ereditarietà).↩
7. Henri Claude de Rouvroy conte di Saint-Simon [1760-1825]: socialista utopista francese, profeta dell’industrialismo.↩
8. François Marie Charles Fourier [1772-1837]: filosofo e scrittore francese. Socialista utopista, progettò colonie comuniste come unità economiche indipendenti.↩
9. Robert Owen [1771-1858]: socialista utopista inglese. Fautore di un “nuovo mondo etico”, nella sua filanda di New Lanark introdusse per primo innovazioni straordinarie a quei tempi (la riduzione del tempo di lavoro, un sistema di previdenza contro malattie e vecchiaia, comitati operai consultivi, etc.).↩
10. Immanuel Kant [1724-1804]: filosofo tedesco. Tentò di giungere alla sintesi tra razionalismo e idealismo. Chiamò il suo sistema: Idealismo trascendentale. ↩
11. Johann Gottlieb Fichte [1762-1814]: filosofo tedesco, discepolo di Kant. Il suo sistema è detto: Idealismo soggettivo.↩
12. Georg Wilhelm Friedrich Hegel [1770-1831]: filosofo tedesco che influenzò tutto il pensiero europeo. Il suo sistema è detto: Idealismo oggettivo (perché il pensiero è un’azione del reale). ↩
13. Eugen Karl Dühring [1833-1921]: filosofo positivista ed economista piccolo borghese tedesco. Aderì al socialismo nel 1872. Perseguitato, perse la licenza di insegnamento nel 1874.↩
14. Eisenachiani: membri dello SDAP (Partito operaio socialdemocratico) fondato ad Eisenach nel 1869. Massimi esponenti degli eisenachiani furono August Bebel e Wilhelm Liebknecht.↩
15. Lassalliani: erano i membri dell’ADAV fondata da Ferdinand Lassalle (v. nota 3).↩
16. Al Congresso di Gotha [22-27 maggio 1875] fu fondato lo SAPD (Partito operaio socialista di Germania) sulla base di un programma criticato da Marx (Critica del programma di Gotha).↩
17. Bimetallismo: sistema monetario fondato sull’oro e l’argento.↩
18. Vorwärts (Avanti!): organo centrale del Partito operaio socialista di Germania, pubblicato a Leipzig dal 1876 al 1878 e a Berlino dal 1891 al 1933.↩
19. Il saggio La Marca (appendice di quest’opera; ma qui rimossa come in tutte le riedizioni) è una storia dei possedimenti fondiari. Marca: comunità rurale dell’antica Germania.↩
20. Maksim Maksimovich Kovalevskij [1851-1916]: sociologo, storico, giurista, politico democratico russo. Noto per le sue ricerche sulla società primitiva.↩
21. Il seguito della prefazione inglese viene tagliato dalla maggior parte delle edizioni perché Engels decise di ripubblicarlo a parte in tedesco col titolo: Sul materialismo storico ↩
I. IL SOCIALISMO UTOPISTICO
[Cfr.: Antidühring 1,1]
Il contenuto del socialismo moderno è anzitutto la concezione scaturita dal contrasto di classe in atto nella società moderna fra abbienti & nullatenenti, salariati & capitalisti; e dall’anarchia regnante nella produzione. La forma teorica del socialismo moderno appare all’inizio come una radicale e rigorosa prosecuzione dei princìpi sostenuti dai grandi illuministi francesi del ‘700. Come ogni nuova teoria, il socialismo ha dovuto anzitutto ricollegarsi al sistema di idee preesistente, benché avesse la sua radice nella realtà economica.
In Francia gli stessi che prepararono gli spiriti alla vicina rivoluzione furono dei rivoluzionari: non accolsero alcuna autorità esteriore di alcun tipo. Tutto fu vagliato dalla critica più spietata (religione, concezione della natura, società, governo); tutto doveva giustificare la sua esistenza ante il tribunale della ragione o esser annientato. L’intelletto pensante fu usato come unica misura. Era il tempo in cui «il mondo si rizzò sulla testa» (Hegel*1 ), prima nel senso che princìpi trovati dal pensiero umano pretesero di valer come base d’ogni azione e d’ogni associazione; e poi nel senso più vasto che ogni realtà che non rispettasse tali princìpi fu affatto ribaltata. Tutte le forme sociali e statali fino allora esistite, tutte le concezioni tradizionali furono gettate in soffitta come cose irrazionali. Fino allora il mondo si era fatto guidare solo da pregiudizi; tutto il passato meritava solo compassione e disprezzo. Ora finalmente sorgeva la luce della Ragione; d’ora in poi la superstizione, l’ingiustizia, il privilegio e l’oppressione sarebbero stati elisi dalla verità eterna, dalla giustizia eterna, dall’uguaglianza fondata sulla natura, dagli inalienabili diritti umani.
Ora noi sappiamo che tal regno della Ragione fu solo il regno della borghesia idealizzato, che la giustizia eterna fu realizzata solo come giustizia borghese; che l’uguaglianza andò a finir nell’uguaglianza borghese ante la legge; che la proprietà fu proclamata come il principale diritto umano; e che lo Stato conforme a ragione (il contratto sociale di Rousseau1) si realizzò come repubblica democratica borghese (e solo così poteva realizzarsi). Come i loro predecessori, i grandi pensatori del ‘700 non poterono oltrepassare i limiti imposti loro dalla loro epoca.
[Il proletariato]
Ma, oltre al contrasto fra nobiltà feudale & borghesia (che pretendeva rappresentare tutto il resto della società), c’era il contrasto generale fra sfruttatori e sfruttati, fra ricchi oziosi e poveri lavoratori. Tale circostanza permise ai rappresentanti della borghesia di porsi rappresentanti di tutta l’umanità sofferente (anziché d’una sola classe). Ma fin dall’inizio alla borghesia attecchiva la sua antitesi: non possono esserci capitalisti senza operai salariati. Come il maestro della corporazione medievale evolveva nel borghese moderno, così il garzone della corporazione e il lavoratore giornaliero senza vincolo corporativo evolvevano nel proletario. Nella lotta contro la nobiltà, con diritto la borghesia si proclamò rappresentante delle varie classi lavoratrici di ogni tempo; eppure in ogni grande movimento borghese scoppiavano dei moti autonomi di quella classe che fu l’antecessore più o meno sviluppato del proletariato moderno (la Guerra dei contadini degli anabattisti e Thomas Münzer durante la Riforma tedesca2; i Livellatori durante la Gloriosa rivoluzione inglese3; Babeuf durante la Prima rivoluzione francese4). Tali sommosse rivoluzionarie d’una classe ancora indefinita si espressero pure teoricamente: nel ‘500 e nel ‘600, utopistiche descrizioni di regimi sociali ideali5; nel ‘700 teorie già comuniste (Morelly e Mably6).
[Il socialismo utopico]
Oltre ai diritti politici, l’uguaglianza doveva estendersi alla condizione sociale dei singoli; oltre ai privilegi di classe, si dovevano elider le stesse differenze di classe. La prima forma della nuova dottrina fu un comunismo ascetico ricalcato su Sparta (spregiatore di tutti i godimenti della vita). Poi seguirono tre grandi utopisti: Saint-Simon7 (che accanto alla tendenza proletaria, dava ancora valore alle tendenze borghesi); Fourier8; Owen9 (che nel paese in cui la produzione capitalistica era più sviluppata causando impressionanti lotte di classi, sviluppò sistematicamente dei progetti connessi direttamente al materialismo francese per elider le differenze di classe). Niun dei tre grandi utopisti stimò di rappresentar il proletariato (frattanto prodottosi storicamente): come gli illuministi, i socialisti utopisti volevano liberar tutta l’umanità, non una classe; volevano crear il regno della ragione e dell’eterna giustizia; ma il loro regno differisce da quello degli illuministi. Il mondo borghese basato su princìpi illuministici parve loro irrazionale e ingiusto come il feudalesimo e tutte le società anteriori, da seppellir nella storia. Finora la ragione e la giustizia effettive non hanno regnato nel mondo perché non le si era intese esattamente. Mancò l’uomo geniale che ora è sorto e ha capito la verità; ed è apparso ora e solo ora la verità è nota per un puro caso fortuito anziché necessariamente in seguito allo sviluppo storico. Sarebbe potuto nascere parimenti 500 anni prima risparmiando all’umanità 500 anni di errori, lotte e sofferenze.
[Cfr.: Antidühring, 3,1]
I filosofi francesi del XVIII secolo (prodromi della rivoluzione) vollero che la ragione fosse unico giudice di tutto l’esistente. Dovevano istituirsi uno Stato e una società razionali. Checché contraddicesse la ragione eterna doveva esser eliso senza pietà. Ma tale ragione eterna fu solo l’intelletto idealizzato del cittadino della classe media che si stava evolvendo nel borghese moderno. Ora, tostoché la rivoluzione francese realizzò tale società e tale Stato razionali, le nuove istituzioni, benché razionali rispetto a quelle passate, comunque non furono razionali in senso assoluto.
Lo Stato razionale si ruppe affatto. Il Contratto sociale di Rousseau trovò la sua realizzazione nel Terrore10, dopo cui la borghesia (persa la fede nella propria capacità politica) si rifugiò prima nella corruzione del Direttorio11 e poi sotto l’egida del dispotismo napoleonico. La promessa pace perpetua mutò in una guerra di conquista senza fine.
La società secondo ragione non ebbe sorte migliore. Anziché risolversi nel benessere generale, il contrasto fra ricchi & poveri fu acuito tostoché aboliti i privilegi corporativi e le opere benefiche della Chiesa di beneficenza che lo mitigavano. La “libertà della proprietà” dai lacci feudali si attuò ma ai piccoli borghesi e ai piccoli contadini parve libertà di vender al grande proprietario la loro piccola proprietà (oppressa dalla concorrenza preponderante del grande capitale e della grande proprietà terriera), cioè libertà di mutarsi in “libertà dalla proprietà”.
Lo slancio dell’industria a base capitalistica rese miseria e povertà delle masse lavoratrici necessarie pella società. Il pagamento in contanti divenne sempre più «il solo elemento di coesione della società» (Carlyle12). Il numero dei delitti crebbe di anno in anno. Mentre i vizi feudali prima ostentati divennero osceni, i vizi borghesi prima osceni divennero ostensivi. Il commercio si sviluppò sempre più come truffa. La parola d’ordine rivoluzionaria “fratellanza” si attuò nei soprusi e nelle rivalità della concorrenza. La corruzione sostituì l’oppressione violenta, il denaro sostituì la spada come leva primaria del potere sociale. Il ius primae noctis passò dai signori feudali ai fabbricanti borghesi. La prostituzione dilagò in misura inedita. Il matrimonio restò la forma legale, l’involucro ufficiale della prostituzione integrato dall’adulterio. Insomma: rispetto alle grandi promesse degli illuministi, le istituzioni sociali e politiche instaurate col “trionfo della ragione” si rivelarono caricature e amare delusioni. Mancarono allora solo gli uomini che constatassero tale delusione, i quali vennero all’inizio del secolo successivo. Saint-Simon (Lettere ginevrine, 1802); Fourier (Teoria dei quattro movimenti, 1808, benché la base della sua teoria risalga al 1799); Robert Owen (direttore di New Lanark13 dal 1° gennaio 1800). Ma al loro tempo la produzione capitalistica (e con essa l’antagonismo fra borghesia & proletariato) era assai poco sviluppata. La grande industria nata in Inghilterra era ancora ignota in Francia. E solo la grande industria sviluppa quei conflitti (nonché fra classi, fra le forze produttive & le forme di scambio) che rendono uopo un mutamento del modo di produzione, l’elisione del suo carattere capitalistico. Insieme alle sue gigantesche forze produttive l’industria sviluppa i mezzi per risolvere tali conflitti. Come nel 1800 i conflitti scaturiti dal nuovo ordine sociale erano solo sul nascer, così i mezzi per risolverli.
Durante il Terrore, le masse nullatenenti parigine (conquistando per un istante il potere e mettendo la rivoluzione borghese contro la borghesia) provarono la loro impossibilità di mantener il potere a lungo nelle condizioni coeve. Il proletariato (non ancora staccato da tali masse nullatenenti come nucleo di una nuova classe) era ancora incapace di un’azione politica autonoma, apparendo come un ceto oppresso, sofferente, bisognosa di ricever un aiuto dall’esterno o dall’alto.
Tale situazione storica segnò i fondatori del socialismo: a produzione e lotta di classi imperfette corrisposero teorie imperfette. Finché celata nei rapporti economici arretrati, la soluzione della questione sociale doveva uscir dal cervello. La società offriva solo incongruità: eliderle toccava alla ragione pensante. Serviva inventar un nuovo e più perfetto ordine sociale ed imporlo alla società dall’esterno colla propaganda e magari con l’esempio di colonie-modello. Tali nuovi sistemi sociali erano condannati ad esser utopie: più essi erano elaborati nei loro particolari, più dovevano risultar fole. Ciò detto, lasciamo tal argomento (ormai appartenente solo al passato) ai bottegai della letteratura che girovagano raccattando tali fole che oggi fanno solo rider, e facendo valere ante tali fole la superiorità dei loro sobri ragionamenti. Invece noi preferiamo rallegrarci dei germi di pensieri geniali che formarono quegli organismi fantastici, ai quali i filistei sono ciechi.
[Claude-Henri de Rouvroy conte di Saint-Simon (Parigi, 17 ottobre 1760 – Parigi, 19 maggio 1825)]
Saint-Simon fu un figlio della prima rivoluzione francese (aveva appena 30 anni quando scoppiò). La rivoluzione fu la vittoria del terzo stato (cioè della gran massa della nazione attiva nella produzione e nel commercio) sugli stati oziosi fino allora privilegiati: nobiltà e clero. Ma la vittoria del terzo stato tosto si rivelò la vittoria esclusiva di una piccola parte di esso, la conquista del potere politico da parte dello suo strato sociale privilegiato: la borghesia possidente. Infatti già durante la rivoluzione tale borghesia si era lesta sviluppata mercé la speculazione sulla proprietà terriera di nobiltà e clero confiscata e poi venduta, e la frode compiuta ai danni della nazione dai fornitori militari. Proprio il dominio di tali ciarlatani sotto il Direttorio portò la Francia e la rivoluzione vicina alla rovina dando a Napoleone il pretesto per il suo golpe. Così nella mente di Saint-Simon l’antagonismo fra terzo stato & stati privilegiati prese la forma di un conflitto fra “lavoratori” & “oziosi”. Gli “oziosi”, oltre agli antichi privilegiati, erano tutti coloro che vivevano di rendita senza partecipare alla produzione e al commercio. E i “lavoratori”, oltre ai salariati, erano i fabbricanti, i mercanti e i banchieri. Che gli oziosi avessero perso la capacità della direzione spirituale e del dominio politico era un fatto compiuto e sancito dalla Rivoluzione. Che i nullatenenti non avessero tale capacità fu per Saint-Simon provato dall’esperienza del Terrore. Chi allora doveva diriger e dominar? Per Saint-Simon la scienza e l’industria, ambe rilegate da un nuovo nesso religioso: serviva ristabilir l’unità delle idee religiose rotta dalla Riforma (un “nuovo cristianesimo” necessariamente mistico e rigidamente gerarchico). Ma la scienza erano i professori e l’industria erano anzitutto i borghesi attivi (fabbricanti, mercanti e banchieri). Costoro dovevano mutarsi in una sorta di pubblici ufficiali, persone di fiducia della società, pur conservando ante gli operai un posto di comando e di privilegio economico. I banchieri specialmente dovevano esser tenuti a regolar tutta la produzione sociale con una regolazione del credito. Tale concezione esprime un periodo in cui in Francia la grande industria (e con essa il conflitto fra borghesia e proletariato) era solo sul nascer. Ma ciò che Saint-Simon particolarmente accentua è questo: che tiene anzitutto in cale, dovunque e sempre, la sorte della «classe più numerosa e più povera» (la classe la plus nombreuse et la plus pauvre).
Già nelle sue Lettere ginevrine Saint-Simon stabilisce che «tutti gli uomini devono lavorare» e che il dominio del Terrore fu il dominio delle masse nullatenenti. Grida loro «Guardate cosa fecero i vostri compagni quando governavano in Francia: essi portarono la fame!». Intender la Rivoluzione francese come una lotta di classi, nonché fra nobiltà e borghesia, fra nobiltà, borghesia e nullatenenti fu una scoperta genialissima per l’anno 1802. Nel 1816 disse che la politica è la scienza della produzione e ne predisse la dissoluzione nell’economia. Che la realtà economica è la base delle istituzioni politiche qui appare solo ancora in germe, ma è già esplicitata la trasformazione del governo politico (sugli uomini) in un’amministrazione di cose e in una gestione dei processi produttivi (cioè quell’«elisione dello Stato» che oggi fa tanto discuter14). Con pari superiorità sui suoi coevi egli proclama nel 1814 (subito dopo l’entrata degli alleati a Parigi15), e ancora nel 1815 (durante la guerra dei Cento giorni16), che l’unica garanzia di uno sviluppo prospero e di pace per l’Europa fosse l’alleanza fra Francia e l’Inghilterra e fra ambi i Paesi colla Germania. Predicar ai francesi del 1815 l’alleanza coi vincitori di Waterloo17 esigeva coraggio pari a riflessione.
[François Marie Charles Fourier (Besançon, 7 aprile 1772 – Parigi, 10 ottobre 1837)]
Saint-Simon ha una geniale larghezza di vedute con cui concepisce in germe quasi tutte le idee dei socialisti successivi non strettamente economiche. Invece Fourier fa una critica delle condizioni sociali coeve, il cui puro estro francese non la rende meno penetrante. Fourier prende in parola la borghesia, i suoi ispirati profeti prerivoluzionari e i suoi interessati apologisti postrivoluzionari. Ei svela implacabile la miseria materiale e morale del mondo borghese e le oppone sia le splendide promesse illuministe d’una società dominata dalla ragione, di una prospera civilizzazione e d’un’illimitata perfettibilità umana, sia l’ipocrita frasario degli ideologi borghesi contemporanei, provando come ovunque alla frase più altisonante corrisponda la realtà più ingrata, e copre di beffe mordaci questo irreparabile fiasco delle frasi. Nonché un critico, Fourier è reso dalla sua natura gaia satirico, anzi uno dei più grandi satirici di tutti i tempi. Con bravura nonché spirito ei descrisse la speculazione e la frode fiorite fallita la rivoluzione, nonché la generale rapacità del commercio francese. Ancora più salace è la sua critica della forma borghese dei rapporti sessuali e della posizione della donna nella società borghese18. Ei per primo asserì che in una data società il grado di emancipazione della donna è la misura naturale dell’emancipazione generale. Ma Fourier dà il massimo nella sua concezione della storia della società. Fourier divide tutto il corso della storia della società finora svolto in quattro fasi di sviluppo: ferinità, barbarie, patriarcato, civiltà19. La civiltà coincide con quella che oggi si chiama società borghese (l’ordinamento sociale introdotto dal ‘500). Fourier prova che: «l’ordine incivilito eleva ciascun vizio che la barbarie pratica in modo semplice ad un modo di essere complesso, a doppio senso, ambiguo e ipocrita»; che la civiltà si muove in un «circolo vizioso», in contraddizioni che essa riproduce sempre senza poterle superare, onde ottiene sempre il contrario di ciò che voleva o pretendeva di ottenere. Per esempio «nella civiltà la povertà sorge dall’abbondanza». Come si vede, Fourier maneggia la dialettica con la maestria del coevo Hegel. Con pari dialettica (contro il discorso sull’infinita perfettibilità umana) prova che ogni fase storica ha una fase ascendente ed una discendente, ed applica tale concezione pure al futuro di tutta l’umanità. Come Kant introdusse nella scienza naturale la futura distruzione della Terra, così Fourier introduce nel pensiero storiografico la futura distruzione dell’umanità.
[Côte della rivoluzione industriale]
Mentre l’uragano della rivoluzione spazzava la Francia, in Inghilterra ci fu una rivoluzione più silenziosa ma altrettanto efficace. Il vapore e le nuove macchine utensili mutarono la manifattura in industria, e così rivoluzionarono tutta la base della società borghese. Il pigro sviluppo della manifattura mutò in un tempestoso periodo di sviluppo della produzione20. Con sempre più velocità si polarizzò la società in grandi capitalisti e proletari nullatenenti: fra tali due classi, il ceto medio ben definito di prima mutò in una massa instabile di artigiani e di piccoli bottegai menanti un’esistenza insicura e formanti la parte più fluttuante della popolazione.
Il nuovo modo di produzione (il solo modo di produzione possibile e normale in quella rivoluzione industriale) era ancora all’inizio della sua fase ascendente, ma produceva già stridenti incongruità sociali: addensarsi d’una popolazione senza tetto nei peggiori quartieri delle grandi città; dissolversi dei legami tradizionali, della sottomissione familiare al patriarca; sopralavoro fino all’estremo (specie delle donne e dei fanciulli); apoteriosi della classe operaia gettata tosto a vivere in condizioni affatto nuove (dalla campagna alla città, dall’agricoltura all’industria, da condizioni di vita stabili a condizioni INSICURE e mutevoli di giorno in giorno). [Cfr.: La situazione della classe operaia in Inghilterra]
[Robert Owen (Newtown, 14 maggio 1771 – Newtown, 17 novembre 1858) ]
Apparve allora come riformatore un industriale ventinovenne, un uomo d’una semplicità infantile fino al sublime e dalle capacità direttive innate molto rare. Robert Owen avea assimilato dagli illuministi la teoria materialista che: il carattere dell’uomo è prodotto, nonché da un’organizzazione innata, dalle situazioni che lo circondano durante la vita (specie durante il suo sviluppo).
Nella rivoluzione industriale la maggior parte degli uomini del suo ceto vedeva solo confusione e caos, atti a pescare nel torbido rapide ricchezze. Invece Owen ci vide l’occasione di portar ordine nel caos con l’applicar il suo principio favorito. Aveva già avuto un successo a Manchester come direttore di una fabbrica di più di cinquecento operai. Dal 1800 al 1829 applicò gli stessi princìpi nelle grandi filande di New Lanark in Scozia, come codirettore ma con più libertà di azione e con un successo che gli valse fama europea. Owen trasformò una popolazione di 2.500 unità (formata da elementi più svariati e perlopiù fortemente demoralizzati) in una perfetta colonia modello: senza ubriachezza, polizia, tribunali, processi, assistenza ai poveri, bisogno di carità privata. E tutto ciò solo mettendo quella gente in condizioni più degne dell’uomo e sorvegliando l’educazione della nuova generazione. A New Lanark Owen introdusse per la prima volta gli asili infantili21. I bambini iniziavano la scuola a due anni, dove stavano così bene da riportarli a casa a fatica. Mentre i suoi concorrenti facevano lavorar tredici o quattordici ore al giorno, a New Lanark si lavorava solo dieci ore e mezza. Allorché una crisi cotoniera costrinse a fermare il lavoro per quattro mesi, agli operai disoccupati fu pagato l’intero salario; eppure il valore dello stabilimento era più che raddoppiato e rese fino all’ultimo un lauto profitto ai proprietari.
Eppure Owen era insoddisfatto. Per lui l’esistenza che aveva creata pei suoi operai non era ancora degna dell’uomo; «costoro sono miei schiavi»: le condizioni relativamente favorevoli in cui li aveva messi non garantivano ancora un razionale sviluppo sotto tutti gli aspetti del carattere e dell’intelletto, e ancora meno una libera attività. «Eppure la parte attiva di questi 2.500 uomini produceva per la società una ricchezza reale quanta appena un mezzo secolo prima avrebbe potuto produrne una popolazione di 600.000 uomini. Io mi chiedevo: dove finisce la differenza fra la ricchezza consumata da 2.500 persone e quella che avrebbero dovuto consumare in 600.000?». La risposta era chiara: era stata usata per pagar ai proprietari dello stabilimento il 5% di interesse sul capitale investito22 e un profitto di 300.000 lire sterline (6 milioni di marchi). E ciò valeva per New Lanark come per tutte le fabbriche inglesi. «Senza tale nuova ricchezza creata dalle macchine non si sarebbero potute far le guerre contro Napoleone a difesa della società aristocratica. Ma tale nuova potenza fu creata dalla classe operaia»23, quindi alla classe operaia dovevano appartenere pure i frutti di questa nuova potenza industriale.
Le nuove potenti forze produttive, fin ad allora servite solo ad arricchir i singoli e asservir le masse, davano a Owen le basi per un nuovo ordine sociale: dovevano lavorar come proprietà comune solo per il benessere comune. In tal guisa pragmatica (frutto dei conti di un commerciante, per così dir) sorse il comunismo di Owen. E conservò sempre lo stesso carattere orientato verso la pratica. Così nel 1823 Owen propose d’elider la miseria irlandese con colonie comuniste e allegò al progetto preventivi esatti su: costi di impianto, spese annue e prevedibili guadagni. Il suo definitivo piano per il futuro è studiato con tale competenza (con elaborazione tecnica dei dettagli e visione di tutto il complesso) che al suo metodo per riformar la società non si trova un’obiezione manco dal punto di vista di uno specialista.
Il passaggio al comunismo rovinò la vita di Owen. Finché si contentò d’esser filantropo raccolse solo ricchezze, plausi, onori e fama. Era l’uomo più popolare d’Europa. Oltre ai suoi pari, pure statisti e prìncipi lo ascoltavano plaudendo. Ma tostoché propose le sue teorie comuniste, ciò mutò. Per Owen tre grossi ostacoli impedivano la riforma sociale: proprietà privata; religione; matrimonio. Sapeva che attaccarli gli avrebbe riservato il bando da tutta la società ufficiale la perdita della sua posizione sociale. Ma ciò non gli impedì di attaccarli patendo quanto previsto. Bandito dalla società ufficiale, seppellito nel silenzio dalla stampa, impoverito dai falliti esperimenti comunisti in America (in cui sacrificò tutta la sua fortuna) si volse direttamente alla classe operaia e rimase a lavorare nel suo seno per altri trent’anni.
Tutti i movimenti sociali, tutti i veri progressi che in Inghilterra furono compiuti nell’interesse degli operai, sono legati al nome di Owen. Così nel 1819, dopo una lotta quinquennale, ottenne la prima legge che limitava il lavoro delle donne e dei fanciulli nelle fabbriche. Così presiedette il primo congresso in cui le Trade Unions di tutta l’Inghilterra si riunirono in un’unica grande organizzazione sindacale.24 Così introdusse (come misure transitorie verso una società affatto comunista) le società cooperative (di consumo e di produzione), che se non altro provarono praticamente l’inutilità di mercante e fabbricante nella filiera; e gli empori del lavoro (istituti per lo scambio dei prodotti del lavoro mediante una carta moneta la cui unità di valore era l’ora di lavoro)25, che dovevano fallir d’uopo ma che anticipavano la Banca di cambio di Proudhon (1849)26 con una differenza: essi erano stimati la cura di tutti i mali sociali, bensì solo un primo passo verso una radicale trasformazione della società27.
[Conclusione diversa dall’Antidühring]
La concezione degli utopisti segnò a lungo le idee socialiste dell’800, e in parte le domina ancora. Fin a poco tempo fa, in essa rientravano sia il socialismo francese ed inglese sia il primo comunismo tedesco (incluso quello di Weitling28). Il socialismo è per tutti loro l’espressione delle assolute Verità, Ragione, Giustizia. Basta saperlo onde conquisti il mondo colla propria forza. Poiché la verità assoluta è avulsa dal tempo, dallo spazio e dallo sviluppo storico dell’uomo, è solo un caso quando e dove sia scoperta. Ma la verità, la ragione e la giustizia assolute sono diverse per ogni caposcuola; e poiché il particolare tipo che la verità, la ragione e la giustizia assolute assumono è a sua volta condizionato dalla comprensione, dalle condizioni di vita, dal grado di nozioni e di educazione a pensare di ogni caposcuola, allora in tal conflitto d’assolute verità è impossibile una soluzione diversa dall’escludersi a vicenda. Quae cum ita sint, poteva venir fuori solo un socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna oggi nelle menti della maggior parte degli operai socialisti francesi e inglesi; una miscela che ammette varie sfumature, che risulta dalle invettive critiche meno polemiche, da princìpi di economia e immagini della società futura dei vari fondatori di sette; miscela che si ottiene tanto più facilmente quanto più, durante la discussione, sono smussati gli angoli acuti della precisione dei singoli componenti, come ciottoli levigati nel torrente. Per far del socialismo una scienza, serviva anzitutto porlo su una base reale.
Note
*1. Il passo di Hegel sulla rivoluzione francese è il seguente: «il pensiero, il concetto del diritto si fece valere súbito, e l’antico edificio dell’ingiustizia non poté opporre resistenza. In nome del diritto fu così redatta una costituzione su cui tutto doveva basarsi. Dacché il sole sta sul firmamento e i pianeti gli girano intorno, mai si era visto l’uomo rizzarsi sulla sua testa, cioè sul pensiero, su cui costruire conformemente la realtà. Anassagora per primo disse che il Nous folce il mondo; ma solo con la Rivoluzione francese l’uomo giunge a riconoscer che il pensiero deve governar la realtà spirituale. Questa fu un inizio glorioso celebrato da tutti gli esseri pensanti. Una nobile commozione dominò quel periodo, un entusiasmo dello spirito scosse il mondo, come se finalmente fosse avvenuta una conciliazione del divino col mondo» (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia). Non sarebbe tempo di mettere in moto le leggi antisocialiste contro tali dottrine sovversive del defunto professor Hegel? [Nota di Engels] ↩
1. Jean-Jacques Rousseau [1712-1778]: filosofo illuminista, deista, ispiratore dei princìpi della Rivoluzione del 1789 e dei suoi più radicali protagonisti.↩
2. Thomas Münzer [1490-1525]: teorico d’un comunismo biblico durante la Guerra dei contadini [1535] ribellatisi in Turingia insieme alla setta degli anabattisti all’epoca della Riforma.
Gli anabattisti erano membri di una setta religiosa protestante che stimavano inefficace il battesimo dei bambini perché imposto in età non razionale. ↩
3. Levellers [Livellatori]: rappresentanti delle plebi urbane e rurali che durante la Rivoluzione inglese del 1648 avanzarono le rivendicazioni più democratiche e radicali. Più radicali di loro furono i diggers [zappatori] che formularono temi di socialismo libertario. ↩
4. François-Noel Babeuf [1760-1797]: detto Caio Gracco, grande rivoluzionario francese, è il primo a sottolineare l’importanza della lotta di classe come molla della storia. Durante la Rivoluzione francese si proclama seguace dei sanculotti e lotta contro ogni involuzione e deviazione dei vari gruppi dirigenti. Fonda e dirige il giornale Il tribuno del popolo. Durante il Direttorio [1795] promosse con Filippo Buonarroti una “congiura degli Eguali”, rivendicante l’uguaglianza economica, superando l’uguaglianza politica voluta dai giacobini. Costretto all’illegalità, il suo gruppo diventa il primo “partito” retto da principi centralistici. Soppressa la congiura nel 1796, fu arrestato e fatto giustiziare il 28 maggio 1797. ↩
5. Engels ivi allude alle opere di Tommaso Moro (XVI sec.) e Tommaso Campanella (XVII sec.), rappresentanti del comunismo utopistico. ↩
6. Morelly [XVIII sec.]: abate francese, scrisse un Codice della natura (classico della letteratura utopistica) in favore dell’abolizione della proprietà privata. Fu ispiratore di Babeuf.
Gabriel Bonnot Mably [1709-1785]: abate francese, vagheggiò il ritorno all’uguaglianza primitiva e alla comunanza dei beni. ↩
7. Henri Claude Saint-Simon [1760-1825]: socialista francese, ideò una riforma della società basata sulla collaborazione delle classi in nome di vaghe religiosità e fratellanza umane. Egli capì la divisione in classi della società, ma non il loro necessario conflitto e la necessità della loro scomparsa una volta mutati i rapporti di produzione.↩
8. Fourier [1772-1837]: socialista utopista francese, scrisse opere di critica della società, progettò colonie comuniste come unità economiche indipendenti.↩
9. Owen [1771-1858]: socialista utopista inglese. Fautore di un “nuovo mondo etico”, introdusse per la prima volta nella sua filanda di New Lanark innovazioni all’epoca straordinarie, tra cui la riduzione del tempo di lavoro, un sistema di previdenza contro malattie e vecchiaia, comitati operai consultivi, etc. Grande successo ebbero le cooperative di consumo da lui suggerite. Non così una sorta di banca di scambio basata sulla “carta moneta del lavoro” per assicurare all’operaio un valore di scambio equivalente al valore del lavoro prestato. Consumò tutto il suo patrimonio in esperimenti di comunità comuniste di produzione che si rivelarono irrealizzabili.↩
10. Terrore (giugno 1793 – luglio 1794): periodo della Rivoluzione francese durante il quale i Giacobini esercitano la loro dittatura rivoluzionaria e democratica. ↩
11. Direttorio [1795-1799]: superesecutivo di cinque membri in Francia. Praticò il terrore contro le forze democratiche a favore della grande borghesia. Fu rovesciato da Napoleone.↩
12. Thomas Carlyle [1795-1881]: filosofo idealista inglese. Scrisse che solo individui singoli fanno la storia (Gli eroi e il culto degli eroi). Approdò a posizioni conservatrici e reazionarie. Fu annoverato nel Manifesto come “socialista feudale” per la sua critica della società borghese inglese (in: Past and Present, libro recensito da Engels negli Annali franco-tedeschi). ↩
13. New Lanark: opificio per la filatura del cotone fondato nel 1784 da Robert Owen e piccola città operaia nelle vicinanze della città scozzese di Lanark. ↩
14. Engels ivi si riferisce alla propaganda anarchica dei seguaci di Bakunin.↩
15. Presa di Parigi: 31 marzo 1814.↩
16. I Cento giorni: arco di provvisorio ripristino dell’Impero fra il ritorno a Parigi di Napoleone dall’isola d’Elba [20 marzo 1815] e la sua definitiva abdicazione [22 giugno 1815].↩
17. Waterloo: villaggio belga dove le truppe anglo-olandesi al comando del duca di Wellington e le truppe prussiane comandate da Blucher sconfissero Napoleone I [1815-06-18].↩
18. La critica di Fourier della forma borghese dei rapporti sessuali e della posizione della donna nella società è esposta in: L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato.↩
19. Invece ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato Engels distingue solo tre fasi (stato selvaggio; barbarie; civiltà) anziché quattro.↩
20. Nell’Antidühring Engels precisa «in un periodo di vero Sturm und Drang della produzione». Sturm und Drang [tempesta e impeto] fu il motto del primo romanticismo tedesco.↩
21. Ovviamente l’italiano asilo, il franese crèche, il tedesco Kleinkinderschule sono denominazioni di tre istituzioni dalla diversa origine e natura. ↩
22. Nel 1813, stanco dei vincoli impostigli da gente che voleva condurre l’azienda secondo i principi consueti, Owen organizzò l’acquisto delle loro quote da parte di nuovi investitori (che comprendevano Jeremy Bentham e un noto Quacchero, William Allen) disposti ad accettar un rendimento annuo del 5% sul capitale lasciando spazio alla filantropia di Owen.↩
23. Owen: La rivoluzione nel pensiero e nella pratica della razza umana: memoriale diretto a tutti i «repubblicani rossi, ai comunisti e ai socialisti d’Europa», al governo provvisorio francese del 1848, e «alla regina Vittoria e ai suoi consiglieri responsabili».↩
24. Nell’ottobre 1833 Owen presiedette a Londra un congresso delle società cooperative e sindacali, creando la Grande associazione delle imprese della Gran Bretagna e dell’Irlanda. Accolta molto sfavorevolmente dalla borghesia e dallo Stato, l’Associazione cessa di esistere nell’agosto 1834.↩
25. Empori del lavoro: fondati dalle cooperative operaie di Owen in diverse città dell’Inghilterra. In essi si effettuava lo scambio equitativo dei prodotti del lavoro sulla base di una “carta moneta del lavoro” la cui unità di base era l’ora di lavoro. ↩
26. Proudhon tentò di istituire una banca di cambio durante la rivoluzione del 1848-1849. Questa Banca del popolo fu fondata il 31 gennaio 1849 a Parigi. Esistette due mesi e fallì agli inizi di aprile 1849 senza aver neppure iniziato a funzionare.↩
27. Al posto del successivo capoverso, nell’Antidühring ci sono due capoversi finali accusanti Dühring di aver trattato con disprezzo Saint-Simon (malgrado riconoscimenti formali), di aver considerato di Fourier solo le fantasie avveniristiche dipinte con particolari romanzeschi, di aver ignorato gli scritti di Owen definendolo un mostro di importuna filantropia. Eppure come i primi utopisti Dühring trae le sue costruzioni solo dal suo cervello, ma è imperdonabile in un’epoca con in atto tutti gli elementi per analizzare le leggi del capitalismo.↩
28. Wilhelm Weitling [1808-1871]: esponente di primo piano del primitivo movimento operaio tedesco, teorico del comunismo egualitario utopistico. Sarto e filosofo tedesco, fu il primo teorico tedesco del comunismo. Benché dipendente dal socialismo evangelico di F.R. de Lamennais, offrì un contributo importante alla formazione di una coscienza proletaria di classe. Nel 1836, recatosi a Parigi, aderisce alla Lega dei Giusti: una società di cospiratori influenzata dalle concezioni di Blanqui e di Babeuf, alla quale avevano aderito Karl Schapper, Heinrich Bauer, Karl Pfänder e Georg Eccarius. La Lega dei Giusti fu travolta dalla sconfitta toccata alla “Società delle stagioni” il 12 maggio 1839: Schapper e Bauer dovettero, dopo lunga prigionia, lasciar la Francia e riparar a Londra. Engels definì i limiti della Lega nel carattere artigiano tedesco e idealmente corporativo dei suoi esponenti, il che impediva di costituirsi coscientemente in partito proletario. Si credeva fermamente nell’eguaglianza, nella fratellanza e nella giustizia e si era fermamente ignoranti in fatto di economia politica. Weitling pubblica L’umanità com’è e come dovrebbe essere [1838]. Nel 1839 si rifugia in Svizzera. Pubblica Garanzie dell’armonia e della libertà [1842] e Il vangelo di un povero peccatore [1843]. Nel 1844, espulso dalla Svizzera, viene consegnato al governo prussiano e condannato a dieci mesi di carcere per attività sovversiva ed empietà. Poi emigra in Inghilterra dove collabora per qualche tempo con K. Marx e F. Engels. Infine si stabilisce a New York dove muore in miseria [1871]. Weitling fu incluso da Marx ed Engels (pur senza nominarlo nel Manifesto) nel gruppo dei “comunisti egualitari” dominato dalle idee di Babeuf. Il passo del Manifesto in cui si parla del sottoproletariato può essere interpretato come una velata allusione pure a Weitling, poiché sia Weitling sia Bakunin vedevano nel Lumpenproletariat (sottoproletariato) l’elemento più leale e sicuro della rivoluzione. Weitling non ammetteva, nel cammino verso il comunismo, la necessità di un periodo di transizione nel quale la borghesia agisca come classe dirigente, cosa che lo distanziò da Marx. Per lui, il modo migliore per instaurar un diverso ordine sociale era portar il disordine sociale esistente a un livello tale da far esaurir la pazienza del popolo. Benché Marx salutasse con entusiasmo l’apparizione, nel 1842, del libro di Weitling Garanzie dell’armonia e della libertà, ruppe definitivamente con lui il 30 marzo 1846, quasi un anno prima della fondazione della “Lega dei comunisti”. ↩
II. IL MATERIALISMO DIALETTICO
[Cfr. Antidühring 1,1]
Intanto, accanto e dopo la filosofia francese del ‘700, era sorta la filosofia classica tedesca che trovò il suo coronamento in Hegel, il cui merito maggiore fu aver assunto la dialettica come la forma più alta del pensiero. Gli antichi filosofi greci furono tutti dialettici nati, e il più enciclopedico fra loro (Aristotele) indagò perfino le forme essenziali del pensiero dialettico. Invece la filosofia moderna (benché annoveri pure grandi esponenti della dialettica, es.: Cartesio e Spinoza) sotto l’influsso inglese si arenò sempre più nel cosiddetto metodo metafisico, che regnò quasi affatto fra i filosofi francesi del ‘700 (almeno nelle loro opere di tipo filosofico). Ma, fuori dalla filosofia autentica, pure i francesi scrissero capolavori di dialettica, es.: Nipote di Rameau (Diderot1, †1821); Discorso sull’origine della diseguaglianza tra gli uomini (Rousseau, 1755).
Adesso esporremo brevemente l’essenza di tali due METODI di pensiero [METAFISICO ovvero DIALETTICO].
Considerando la natura o la storia umana o la propria attività spirituale, appare anzitutto il quadro d’un infinito intreccio di cose connesse e interagenti, in cui nulla resta dove e come era, ma tutto si muove, muta, nasce e muore. Cioè appare anzitutto un quadro generale in cui i particolari più o meno passano in seconda linea e si bada più al movimento, ai passaggi, ai nessi (anziché a ciò che si muove, passa ed è connesso). Tale visione del mondo primitiva, ingenua ma in sostanza giusta, è l’antica filosofia greca e fu per la prima volta espressa chiaramente da Eraclito2: «tutto è e anche non è, perché tutto scorre, è in continuo cambiamento, in continuo nascer e morir». Ma, benché colga giustamente il carattere generale dei fenomeni, tale concezione è insufficiente a spiegare i particolari di cui consta il quadro generale, e finché questi particolari non sono noti, manco il quadro generale è chiaro. Per conoscere tali particolari serve staccarli dal loro nesso naturale o storico ed esaminarli ognuno per sé, nella loro natura, nelle loro cause, nei loro effetti particolari, ecc. Tale è il compito delle scienze naturali e della ricerca storica. Tali scienze ebbero appo i greci dell’età classica una funzione secondaria per valide ragioni: serviva prima raccoglier il materiale. Solo dopo un certo accumulo di materiale naturale e storico, inizia il vaglio critico, il raffronto, la divisione in classi, ordini e tipi. I princìpi delle scienze naturali furono trovati solo dai greci del periodo alessandrino3 e poi dagli arabi del Medioevo. Ma una vera scienza naturale risale solo alla seconda metà del ‘400, e poi è progredita con celerità sempre crescente. L’analisi della natura nelle sue singole parti, la ripartizione dei fenomeni e degli oggetti naturali in categorie distinte, lo studio dell’interno dei corpi organici nelle loro varie conformazioni anatomiche furono le condizioni essenziali dei progressi giganteschi nella conoscenza della natura portati dagli ultimi quattro secoli. Ma tale metodo ci ha dato una concezione generale delle cose e dei fenomeni della natura nel loro isolamento, avulsi dal vasto nesso d’insieme; un concepire le cose nel loro stato di quiete (anziché nel loro moto) come di natura fissa e stabile (anziché di natura mutevole), nella loro morte (anziché nella loro vita). E tal abito di intuizione delle cose [Weltanschauung], allorché con Bacone e Locke passò dalle scienze naturali alla filosofia, creò l’inadeguato modo di pensare metafisico la limitatezza degli ultimi secoli.
Per il metafisico le cose e le loro immagini mentali (nozioni) sono oggetti di indagine da studiare l’uno dopo l’altro e l’uno senza l’altro; fissi, rigidi, dati una volta per tutte. Il metafisico pensa per antitesi prive di termine medio; dice solo o sì o no, stimando il resto decettivo. Per lui, una cosa esiste o non esiste; ed è impossibile che una cosa sia sé stessa ed un’altra nello stesso tempo. Positivo e negativo si escludono reciprocamente in modo assoluto. Inoltre causa ed effetto stanno in rigida opposizione reciproca. Tal modo di pensare par assai verisimile poiché è il modo del sedicente senso comune. Ma il senso comune (compagno rispettabile nel mondo domestico) vive avventure curiose se si arrischia nel vasto mondo dell’indagine scientifica. Il metodo metafisico di intendere (giustificato e perfino necessario per l’analisi di tanti tipi di oggetti) prima o poi giunge a un limite oltre cui diviene parziale, ristretto, astratto e si perde in contraddizioni insolubili; poiché se contempla le cose isolate allora neglige il loro nesso, se il significato allora il loro divenir e dissolversi, se il loro stato di quiete allora il loro moto; poiché vede gli alberi anziché la foresta. Es. Pei casi più frequenti, si sa e si può dir esattamente se un animale esiste o no; ma ad un esame più esteso tal cosa è a volte complessa, come sanno i giuristi tormentati dal trovar un limite razionale oltre cui l’aborto è omicidio. E poi è impossibile stabilir l’ora del decesso poiché la fisiologia prova che la morte non è un fenomeno istantaneo, bensì di lunga durata. E poi ogni corpo organico in ogni istante è e non è sé stesso: in ogni istante assimila materie dall’esterno e ne secerne delle altre; in ogni istante muoiono cellule del suo corpo e se ne formano nuove; finché dopo un tempo la materia corporea è affatto rinnovata, sostituita da altri atomi di materia, onde ogni essere organico è sempre sé stesso nonché un altro. Ad un esame più preciso risulta pure che: i due poli di un’antitesi (positivo e negativo) sono indivisibili l’uno dall’altro benché affatto opposti; si compenetrano a vicenda malgrado la loro opposizione. E che: causa e effetto sono idee valevoli solo se applicate a casi singoli; ma considerando il nesso generale fra il caso e il mondo, tali idee si dissolvono nell’universale azione reciproca dove cause e effetti si scambiano incessanti di posto (ciò che ora o qui è effetto, là o poi diviene causa; e viceversa).
Tutti tali fenomeni e metodi di pensiero trascendono il pensiero metafisico ma confortano il metodo dialettico che stima le cose e le loro immagini mentali nel loro nesso, nel loro concatenamento, nel loro movimento, nel loro divenire e dissolversi. La natura è il banco di prova della dialettica e la scienza moderna ha fornito a tale banco di prova un ricco materiale, che cresce ogni giorno dimostrando che in definitiva la natura procede dialetticamente e non metafisicamente, che non si muove nell’eterna uniformità di un circolo che si ripete uguale bensì percorre una vera storia. Ivi serve citar anzitutto Darwin che inflisse un duro colpo alla concezione metafisica della natura, provando che tutta la natura organica d’oggi (piante; animali, uomo incluso) è il prodotto d’un processo di sviluppo milionario.4 Ma essendo finora stati pochi i naturalisti dialettici, oggi il conflitto fra i risultati scoperti & l’invalso modo di pensare metafisico causa nelle scienze naturali teoriche l’enorme confusione che porta alla disperazione maestri e scolari, scrittori e lettori.
Un’esatta rappresentazione dell’universo, del suo sviluppo e di quello dell’umanità, nonché dell’immagine di tale sviluppo nella mente degli uomini, può ottenersi solo per via dialettica, considerando sempre le azioni reciproche del divenir e del dissolversi, dei mutamenti progressivi o regressivi. Tale via percorse la filosofia tedesca moderna fin dall’inizio. Kant iniziò la sua carriera scientifica provando che il sistema solare newtoniano (preteso stabile e di eterna durata) è un processo storico (una volta dato il famoso impulso iniziale): cioè una formazione del sole e di tutti i pianeti da una massa nebulosa rotante.5 E concluse che dalla formazione del sistema solare segue d’uopo la sua futura dissoluzione. Mezzo secolo dopo le sue teorie ricevettero da Laplace una base matematica; e un altro mezzo secolo dopo lo spettroscopio trovò nello spazio cosmico tali masse gassose incandescenti a diversi gradi di condensazione.
Tale filosofia tedesca moderna trovò il suo compimento nel sistema hegeliano che per la prima volta (ciò è il suo grande merito) concepì tutto il mondo naturale, storico e spirituale come un processo (cioè in un movimento, in un cambiamento, in una trasformazione, in uno sviluppo incessanti) e cercò il legame che rende tali movimento e sviluppo un’unità. Da tale punto di vista, la storia umana non parve più una serie di violenze insensate (tutte ugualmente condannabili davanti al tribunale della matura ragione filosofica, e che è meglio dimenticare al più presto possibile); bensì come il processo di evoluzione dell’umanità. E ora il compito del pensiero consisteva nel: seguire lo sviluppo progressivo di tale processo che si compie per gradi (attraversando pure deviazioni); e trovare una legge intima di tale processo (in apparenza dovuto al caso).
Il memorabile merito di Hegel è aver impartito tale compito; è irrilevante che non l’abbia assolto. Invero è un compito che nimo potrà assolver da solo. Hegel (con Saint-Simon, le menti più universali coeve) era tuttavia limitato dalle sue conoscenze d’uopo limitate e poi dalle conoscenze coeve altrettanto ridotte. Ma soprattutto Hegel era un idealista, cioè per lui le idee della mente non erano i riflessi (più o meno astratti) delle cose e dei fenomeni reali, bensì le cose e il loro sviluppo erano i riflessi materializzati dell’«Idea» preesistente (non si sa come) al mondo creato ad immagine di un’idea esterna. Il nesso autentico fra mondo materiale e idee prodotte dal cervello era così ribaltato. E benché certe questioni della scienza e della storia siano concepite in modo giusto e geniale da Hegel, il sistema nel suo insieme riproduce d’uopo l’errore basilare, dovendo risultare un aborto; ma fu anche l’ultimo nel suo genere. Inoltre ha un’intima contraddizione insanabile: da un lato presuppone la visione storica delle cose (per cui la storia umana è un processo di sviluppo per natura infinito che non può concludersi nella scoperta d’una verità assoluta) & d’altro canto il sistema pretende di esplicare proprio tale verità assoluta. Un sistema complessivo e concluso della conoscenza della natura e della storia contraddice i principi basilari del pensiero dialettico. Ma ciò non esclude affatto bensì implica che la conoscenza sistematica di tutto il mondo esterno migliora in ogni generazione.
Svelar l’assurdità dell’idealismo tedesco coevo portò d’uopo al materialismo dialettico, ma bada: non un settecentesco materialismo metafisico e solamente meccanicistico, che nella foga rivoluzionaria rifiutò in toto la storia passata, bensì il materialismo dialettico che vede nella storia l’evoluzione dell’umanità (graduale e sovente interrotta) e ha il compito di scoprirne le leggi di movimento. Anziché (come i francesi settecenteschi e Hegel) concepir la natura come un tutto invariabile moventesi in orbite ristrette, coi suoi eterni corpi celesti (come aveva insegnato Newton6) e colle sue invariabili specie di esseri organici (come aveva insegnato Linneo7) , il materialismo dialettico caletta coi progressi delle scienze naturali, per cui pure la natura ha uno sviluppo storico: i corpi celesti e le specie organiche che ci abitano nascono e muoiono in situazioni favorevoli, e le orbite assumono dimensioni molto più vaste (nei limiti del possibile). In ambi i casi al moderno materialismo dialettico non serve una filosofia che trascenda le scienze. Se ogni scienza particolare trova posto nel nesso generale delle cose e della conoscenza delle cose, allora una scienza specifica del nesso generale è superflua. Ciò che resta di tutta la filosofia esistita finora è la dottrina del pensiero e delle sue leggi (logica formale e dialettica). Il resto è scienza della natura e della storia.
La concezione della natura fu rivoluzionata solo dall’apporto al materiale fornito dalla scienza positiva, invece la rivoluzione della concezione della storia fu resa necessaria già prima da fatti storici. Nel 1831 a Lione8 capitò la prima rivolta operaia: dal 1838 al 1842 il primo movimento operaio nazionale (quello dei cartisti inglesi) raggiunse il suo apice9. La lotta di classe fra proletario e borghesia segnò la storia dei paesi più progrediti d’Europa, man mano che si sviluppava in quei paesi da un lato la grande industria e dall’altro la conquista borghese del potere politico. I fatti smentirono sempre di più le teorie economiche borghesi dell’identità di interessi del capitale e del lavoro, dell’armonia generale e del benessere generale del popolo come conseguenza della libera concorrenza. Erano innegabili sia tali fatti sia il socialismo francese ed inglese che ne era l’espressione teorica, benché imperfetta. Ma la concezione idealistica della storia coeva non conosceva le lotte di classi basate su interessi materiali; anzi non riconosceva alcun interesse materiale; infatti la produzione e tutti i rapporti economici vi rientravano solo di sfuggita come elementi secondari della “storia della civiltà”.
I nuovi fatti costrinsero a riesaminar tutta la storia passata, provando che essa (eccetto le età primitive) era tutta storia di lotte delle classi, che tali classi sociali in lotta fra loro sono generate dai rapporti di produzione e di scambio, cioè dai rapporti economici coevi; onde la struttura economica di una data società è la base reale necessaria per spiegare davvero tutta la sovrastruttura sia delle sue istituzioni giuridiche e politiche e delle ideologie religiose, filosofiche e di altro genere che le sono proprie. Hegel liberò la concezione della storia dalla metafisica, la rese dialettica ma comunque essenzialmente idealistica. Ora l’idealismo veniva espulso dal suo ultimo rifugio dalla scienza storica basata sulla concezione materialistica della storia che riuscì a spiegar la coscienza degli uomini col loro vivere, anziché spiegare il loro vivere con la loro coscienza, come si era fatto fino allora. Onde il socialismo pareva ora (anziché scoperta accidentale di questa o di quella mente geniale) il risultato necessario della lotta di due classi formatesi storicamente: il proletariato e la borghesia. Anziché approntar un sistema il più possibile perfetto della società, il compito socialista era studiare il processo storico-economico da cui d’uopo erano sorgono le classi e il loro conflitto, e cercare nella situazione economica così creata il mezzo per elidere il conflitto. Ma il socialismo coevo era incompatibile con la nuova scienza storica quanto il materialismo francese era incompatibile colla dialettica e con la scienza naturale. Il socialismo coevo, pur criticando il vigente modo di produzione capitalistico e i suoi effetti, non sapeva spiegarlo né quindi superarlo: poteva solo giudicarlo un male. Quanto più violentemente il socialismo primitivo inveiva contro lo sfruttamento della classe operaia (inseparabile dal modo di produzione capitalistico), tanto meno sapeva spiegare cosa fosse e come sorga tale sfruttamento. Invece serviva, da un lato, spiegar tale modo di produzione capitalistico come una tappa storica e la sua necessità per un certo periodo storico (onde la sua necessaria transitorietà); e, dall’altro, esibir il suo carattere intimo (non ancora capito). Ciò capitò colla scoperta del plusvalore. Fu provato che l’appropriazione di lavoro non pagato è la forma basilare del modo di produzione capitalistico e del connaturato sfruttamento dell’operaio; che, anche comprando la forza-lavoro dell’operaio al pieno valore che come merce essa ha sul mercato, il capitalista ne trae comunque un valore maggiore di ciò che ha pagato per comprarla; e che insomma tale plusvalore è la somma dei valori per cui si accumula la massa di capitale continuamente crescente nelle mani delle classi possidenti. Ecco spiegato come funzionano la produzione capitalistica e la produzione del capitale. Ambe tali grandi scoperte (la concezione materialistica della storia e la spiegazione del segreto della produzione capitalistica mediante il plusvalore) sono di Karl Marx. Ambe tali grandi scoperte resero il socialismo una scienza che ora serve anzitutto elaborare ulteriormente in tutti i suoi particolari e in tutte le sue relazioni.
Note
1. Denis Diderot [1713-1784]: illuminista francese, seguace del materialismo meccanicistico, ateo, precursore della borghesia rivoluzionaria francese, redattore dell’Enciclopedia.↩
2. Eraclito [VI sec. a.C.]: filosofo greco, uno dei fondatori della dialettica, seguace del materialismo spontaneo. Concepì la vita dell’universo come un perenne divenire.↩
3. Periodo alessandrino [III sec. a.C. – VII sec. d.C.]: periodo di intenso sviluppo delle scienze: matematica (Euclide; Archimede; …); geografia; astronomia; anatomia; fisiologia.↩
4. Darwin pubblicò nel 1859 l’Origine della specie e nel 1871 l’Origine dell’uomo.↩
5. Engels ivi si riferisce all’opera di Kant: Storia naturale universale e teoria dei cieli [1755].↩
6. Isaac Newton [1642-1727]: fisico, astronomo e matematico inglese, padre della meccanica classica. Enunciò la legge della gravitazione universale.↩
7. Karl von Linné [1707-1778]: naturalista svedese, autore della prima classificazione scientifica delle piante e degli animali.↩
8. Durante uno sciopero degli operai tessili di Lione per la fissazione del salario minimo, una manifestazione fu dispersa a fucilate. Gli operai insorsero e tennero la città finché non fu fatto intervenire l’esercito.↩
9. Cartisti: movimento attivo fino al 1848, senza un programma e una tattica determinati né una direzione proletaria e rivoluzionaria. La sua importanza e l’influenza del cartismo sulla storia politica dell’Inghilterra e sull’evoluzione del movimento operaio mondiale furono enormi.↩
III. L’EVOLUZIONE CAPITALISTICA
[Cfr. Antidühring 3,2]
Principio della concezione materialistica della storia è: la produzione e lo scambio dei suoi prodotti sono la base d’ogni ordinamento sociale. In ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione dei prodotti (che crea classi sociali gerarchiche) si modella su cosa si produce, sul come si produce, sul modo di scambiar ciò che si produce. Onde le cause ultime d’ogni mutamento sociale e di ogni rivolgimento politico stanno nei mutamenti del modo di produzione e di scambio (non nella mente degli uomini, nel grado della loro conoscenza della verità eterna e dell’eterna giustizia); in una parola stanno nell’economia (non nella filosofia). Saper che le istituzioni sociali vigenti sono irrazionali ed ingiuste («la ragione è divenuta assurdità, il beneficio danno»1) è solo un segno che nei metodi di produzione e nelle forme di scambio sono capitati taciti mutamenti pei quali diviene inadatto l’ordinamento sociale adatto alle condizioni economiche precedenti. E i mutati rapporti di produzione devono contener in sé i mezzi per elider gli inconvenienti scoperti, più o meno attuati. Perciò bisogna usare la mente non per inventar tali mezzi, bensì per scoprirli nei fatti materiali esistenti della produzione così come è data.
Detto ciò, quale è la posizione del socialismo moderno? L’ordinamento sociale vigente (il che è ormai invalso) è creazione della classe oggi dominante: la borghesia. Il modo di produzione proprio della borghesia (chiamato da Marx modo di produzione capitalistico) era inconciliabile con l’ordinamento feudale (coi privilegi locali e di ceto; coi legami personali fra lavorante e sfruttatore appo le gilde nelle città o la servitù della gleba nelle campagne). La borghesia elise l’ordine feudale e sulle sue rovine erse l’ordinamento sociale borghese: il regno della libera concorrenza, della libertà di domicilio, dell’uguaglianza ante la legge, di ognuna delle cosiddette delizie borghesi. Tale società permette il libero sviluppo del modo di produzione capitalistico poté svilupparsi liberamente. Dacché il vapore e le nuove macchine utensili trasformarono la vecchia manifattura nella grande industria le forze produttive elaborate sotto la direzione della borghesia si svilupparono con celerità e misure inedite. Ma come prima la manifattura (e l’artigianato sviluppatosi sotto il suo influsso) conflisse coi vincoli feudali delle gilde; così, attuata del tutto, la grande industria confligge coi limiti del modo di produzione capitalistico. Le nuove forze produttive sono schiacciate dalla forma borghese del loro sfruttamento. Tale conflitto fra forze produttive e modo di produzione non è un’idea degli uomini (come quello fra peccato originale e grazia divina) bensì esiste nei fatti, obiettivamente, avulso dal volere e dalla condotta degli uomini che lo hanno causato. Il socialismo moderno è solo il riflesso ideale di tale conflitto reale, che si produce dapprima nella mente della classe che sotto tale conflitto direttamente soffre: la classe operaia.
Che cosa è tale conflitto fra forze produttive & modo di produzione?
Nel medioevo (prima della produzione capitalistica) c’era ovunque la piccola produzione, che presupponeva la proprietà dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori: il potere dei piccoli contadini (liberi o servi); l’artigianato delle città. I mezzi di lavoro (terra, attrezzi aratori, laboratori, utensili) erano singoli (atti solo all’uso individuale) onde d’uopo modesti, piccoli, limitati. Per questo solevano pure appartener al produttore stesso. Concentrar tali mezzi di produzione sparpagliati e limitati; estenderli, mutarli nelle potenti leve di produzione moderne è il compito storico del modo di produzione capitalistico e della classe che lo rappresenta: la borghesia. Marx descrisse nel Capitale (Libro I, sezione quarta) come dal ‘400 in poi la borghesia svolse il compito in tre fasi (cooperazione semplice; manifattura; grande industria); e prova che la borghesia poteva mutar quei mezzi di produzione limitati in potenti forze produttive solo mutandoli da mezzi di produzione individuali a mezzi di produzione sociali (usabili solo da una collettività d’uomini). Anziché filatoio, telaio a mano, maglio del fabbro, subentrarono macchina tessili, telaio meccanico, maglio a vapore; anziché la bottega subentrò la fabbrica esigente il lavoro collettivo pure di migliaia di uomini. E come i mezzi di produzione, pure la produzione stessa mutò da una serie di atti individuali in una serie di atti sociali, e i prodotti mutarono da prodotti individuali a prodotti sociali. Il filo, il tessuto, gli oggetti di metallo che ora uscivano dalla fabbrica erano il prodotto comune di tanti operai: dovevano passar dalle mani di ciascuno per essere pronti. Nimo di loro può dir individualmente: «Io ho fatto ciò, è il mio prodotto».
Ma la nuova produzione collettiva apparì in una società basata sulla divisione naturale del lavoro (sorta per inerzia senza un piano) che dà ai prodotti la forma di merci il cui scambio (compravendita) rende i singoli produttori capaci di soddisfar i loro svariati bisogni. Nel Medioevo, tale forma scambio combaciava col modo di produzione. Es. Il contadino vendeva prodotti agricoli all’artigiano e a sua volta comprava da lui prodotti artigianali. In tal società di singoli produttori di merci si ingerì il nuovo modo di produzione che mise la divisione pianificata del lavoro regnante nella singola fabbrica accanto alla divisione naturale del lavoro senza piano regnante nella società. Accanto alla produzione individuale apparse la produzione sociale. I prodotti d’ambe furono venduti allo stesso mercato a prezzi quasi eguali. Ma la divisione pianificata fu più forte della divisione naturale del lavoro. Lavorando socialmente le fabbriche producevano prodotti più convenienti dei piccoli produttori isolati. La produzione individuale fu vinta un settore alla volta, la produzione sociale rivoluzionò tutto l’antico modo di produzione. Ma il suo carattere rivoluzionario restò ignoto, tant’è che fu introdotta per accrescer e favorir la produzione di merci. Essa sorse innestandosi su precise leve della produzione e dello scambio di merci già scoperte (capitale mercantile; mestieri; lavoro salariato). Presentandosi come una nuova forma della produzione di merci, pure per la produzione sociale valsero le forme di appropriazione della produzione di merci.
Nella produzione di merci medievale era insensato chiedersi a chi dovesse appartener il prodotto del lavoro. Il singolo produttore soleva forgiarlo da una materia prima di sua proprietà (spesso creata da lui stesso, con mezzi di lavoro propri e col lavoro manuale proprio o della sua famiglia). Manco serviva un atto di appropriazione: gli apparteneva immediatamente. Così il possesso dei prodotti seguiva dal proprio lavoro. Seppur fosse servito l’aiuto altrui, tale aiuto restava cosa accessoria e chi lo forniva soleva mirar ad un’altra ricompensa oltre al salario: l’apprendista e il garzone delle gilde lavoravano per diventar maestri, più che per il vitto e il salario. Poi capitò la concentrazione dei mezzi di produzione in grandi officine e manifatture, il loro mutamento in mezzi di produzione sociali di fatto. Ma i mezzi di produzione e i prodotti sociali furono ancora trattati (come prima) come mezzi di produzione e prodotti individuali. Prima il possessore dei mezzi di lavoro si appropriava il prodotto perché di regola era un prodotto suo proprio, e il lavoro sussidiario altrui era solo l’eccezione; invece ora il padrone dei mezzi di lavoro seguitò ad appropriarsi il prodotto, benché non fosse più il suo prodotto, ma affatto il prodotto del lavoro altrui. Così il capitalista si appropria dei prodotti ormai creati socialmente (non coloro che mettevano difatti in moto i mezzi di lavoro e che invero creavano i prodotti). Mezzi di produzione e produzione sono divenuti sociali invero, ma sono sottoposti ad una forma di appropriazione che presuppone la produzione privata individuale, in cui chi possiede i mezzi possiede il prodotto e lo porta al mercato. Il modo di produzione fu sottoposto a tale forma di appropriazione benché ne tolga il presupposto*1.
In tale contraddizione che è il carattere capitalistico del nuovo modo di produzione, c’è già in nuce l’antagonismo sociale odierno. Più il nuovo modo di produzione invase ogni tipo di produzione e ogni paese economicamente notevole, più soppiantò la produzione individuale fino ai suoi residui insignificanti, tanto più crudamente doveva appalesarsi l’inconciliabilità fra produzione sociale & l’appropriazione capitalistica.
I primi capitalisti, come è suesposto, trovarono già esistente la forma del lavoro salariato; ma il lavoro salariato era eccezione, occupazione ausiliaria, accessoria, transitoria. Il lavoratore agricolo lavorava ogni tanto alla giornata, ma aveva il suo pezzo di terra bastevole pure alla peggio. Le gilde erano organizzate affinché il garzone di oggi divenisse il maestro di domani. Ma tutto mutò tostoché i mezzi di produzione divennero sociali e furono concentrati nelle mani dei capitalisti. Il mezzo di produzione e il prodotto del piccolo produttore singolo perse sempre più di valore e gli restava solo di andare a lavorare a salario dal capitalista. Il lavoro salariato, prima eccezione e complemento, divenne regola e forma base di tutta la produzione; l’occupazione prima accessoria si accaparrò tutto il tempo di lavoro. Il salariato temporaneo mutò in salariato a vita. Inoltre la massa dei salariati a vita divenne smisurata e fu aumentata dal coevo crollo dell’ordinamento feudale, dalla dispersione del personale dei signori feudali, dall’espulsione dei contadini dalle loro fattorie, ecc. Divenne completa la separazione fra i mezzi di produzione (concentrati nelle mani dei capitalisti) & i produttori (ridotti a possedere solo la forza-lavoro). La contraddizione fra produzione sociale & appropriazione capitalistica si appalesò come antagonismo fra proletariato & borghesia2. Si è visto che il modo di produzione capitalistico si inserì in una società di produttori di merci (produttori singoli fra cui lo scambio dei loro prodotti è il solo rapporto sociale). Ma alla produzione di merci corrisponde una società in cui i produttori sono dominati dai rapporti sociali mutui, anziché controllarle. Ognuno produce con mezzi di produzione casualmente posseduti per i suoi bisogni e per il bisogno di scambio. Nimo sa né quanti suoi articoli arrivano al mercato, né in generale quanti ne sono richiesti; nimo sa se il suo prodotto individuale risponde ad un effettivo bisogno, né se potrà ricavarne le spese, né se sarà venduto. Domina l’anarchia della produzione sociale. Ma la produzione di merci, come ogni altra forma di produzione, ha le sue leggi specifiche intrinseche. E tali leggi si attuano malgrado l’anarchia, e per mezzo di essa. Esse appaiono nell’unica forma di nesso sociale rimasta (nello scambio) e si fanno valere sui produttori individuali come leggi coattive della concorrenza. All’inizio le leggi sono ignote ai produttori che devono scoprirle con una lunga esperienza. Ciò significa che: sono leggi che si attuano senza i produttori e contro di loro, come leggi naturali della loro forma di produzione agenti ciecamente. Il prodotto domina i produttori. Riformuliamo daccapo.
Nella società medioevale, specie nei primi secoli, la produzione era perlopiù indirizzata al consumo personale, a soddisfare solo i bisogni del produttore e della sua famiglia. Ove c’erano rapporti di servitù, come in campagna, la produzione serviva a appagar i bisogni del feudatario. Così non c’era scambio onde i prodotti manco assumevano la forma di merci. La famiglia del contadino produceva quasi tutto ciò di cui abbisognava (attrezzi; indumenti; vitto). Solo allorché produsse un’eccedenza sul suo consumo e sui tributi in natura dovuti al feudatario, allora iniziò a produrre merci. L’eccedenza immessa nello scambio sociale divenne merce (offerta in vendita). Invero gli artigiani cittadini dovettero produrre per lo scambio fin dall’inizio. Ma elaboravano da soli la maggior parte del loro fabbisogno personale (avevano orti e piccoli campi; mandavano il loro bestiame nel bosco comunale che forniva loro pure legname per costruir e scaldarsi; le donne filavano il lino, la lana, etc.). Fino ad allora la produzione per lo scambio, la produzione di merci, era solo sul nascere. Donde scambio limitato, mercato limitato, modo di produzione stabile; ogni gruppo organizzava la produzione nel suo seno escludendo i prodotti degli altri gruppi: la Marca nella campagna; la gilda nella città.
Ma estesasi la produzione di merci e apparso il modo di produzione capitalistico presero forza più manifesta e con più efficacia le leggi della produzione di merci fino allora latenti. L’eccedenza della produzione immediata crebbe fino a trasformarsi in merce. Il commercio si sviluppò e iniziò a stabilire fra diversi paesi rapporti mutui. I progressi del commercio accelerarono lo sviluppo dell’industria; l’antica stabilità feudale fu affatto rotta. I tributi in natura (frumento o bestiame) mutarono in imposte e in rendite fondiarie (moneta). Tutti i prodotti presero la forma di merci. Apparve l’anarchia della produzione sociale e fu spinta sempre più all’estremo. Ma il principale strumento con cui il modo di produzione capitalistico accrebbe tale anarchia della produzione sociale fu l’opposto dell’anarchia: la crescente organizzazione della produzione divenuta sociale nella fabbrica rimasta privata. Con tale leva, il capitalismo ruppe l’antica pacifica stabilità. Laddove fu introdotta in un ramo di industria non tollerava accanto a sé alcun altro modo di produzione. Laddove si impadroniva di un mestiere ne elideva l’antica forma artigiana. Il campo del lavoro divenne un campo di battaglia. Le colonizzazioni seguite alle grandi scoperte geografiche diedero sbocchi alla produzione e accelerarono la trasformazione dell’artigianato in manifattura. Nonché lotte fra singoli produttori locali; scoppiarono lotte nazionali, come le guerre commerciali del ‘600 e ‘700.3 Infine la grande industria e la creazione del mercato mondiale resero universale la lotta conferendole una violenza inaudita. Ottenere favorevoli condizioni di produzione (naturali o artificiali) decide dell’esistenza di singoli capitalisti o di intere industrie e Paesi. I vinti sono eliminati spietatamente. È la lotta darwiniana per l’esistenza traslata con maggior furore, dalla natura alla società. La condizione dell’animale brado appare come méta dell’evoluzione umana. La contraddizione fra produzione sociale e appropriazione capitalistica si esibisce ora come antagonismo fra l’organizzazione della produzione nella singola fabbrica e l’anarchia della produzione nell’intera società.
In ambe le forme in cui si appalesa l’intrinseca e originaria contraddizione si muove il modo di produzione capitalistico e descrive quel «circolo vizioso» scoperto da Fourier. Ciò che Fourier non poteva invero capir ai suoi tempi è che tale circolo si contrae, che il moto descrive una spirale più che un circolo, e che raggiungerà la sua fine collidendo col centro come le orbite dei pianeti. È la forza motrice dell’anarchia sociale della produzione che muta sempre più uomini in proletari; e questa stessa massa proletaria alla fine eliderà l’anarchia della produzione. È la forza motrice dell’anarchia sociale della produzione che muta l’infinita perfettibilità delle macchine della grande industria nell’obbligo imposto al singolo capitalista industriale di perfezionar le sue macchine, o di sparire. Ma perfezionar le macchine rende superfluo il lavoro umano. Se introdurre e aumentar le macchine sostituisce milioni di operai manuali con pochi operai addetti alle macchine, allora migliorare il macchinario significa render superflui perfino tali addetti alle macchine, cioè creare una massa di salariati disponibili superiore al bisogno di impiego medio occupabile dal capitale: crear cioè una “popolazione eccedente” (come la nomai io ne: La situazione della classe operaia in Inghilterra, 7 [1845]) disponibile pei tempi in cui l’industria lavora a tutto vapore, gettato sul lastrico nella necessaria crisi seguente. Tale eccedenza è in tutti i tempi una palla al piede della classe operaia nella sua lotta per l’esistenza contro il capitale, regolatore che serve a tenere il salario a livello più basso, il solo atto alle esigenze dei capitalisti. Per dirla con Marx, così la macchina diviene l’arma più potente dei capitalisti contro gli operai; il mezzo di lavoro toglie all’operaio i mezzi di sussistenza; il prodotto dell’operaio diviene strumento per il suo asservimento. Cioè ridurre le spese di produzione è a priori una dilapidazione spietata della forza-lavoro e un lesinar sui normali presupposti della funzione lavorativa. Le macchine (il mezzo più potente per ridurre il tempo di lavoro) mutano nel miglior mezzo per mutar tutta la vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per valorizzare il capitale. Il sopralavoro degli uni diviene il presupposto della disoccupazione degli altri. La grande industria caccia nuovi consumatori su tutto il pianeta ma in patria riduce il consumo delle masse a un minimo di fame, fa crollar il suo mercato interno. «La legge che equilibra sempre la popolazione eccedente relativa (o l’esercito industriale di riserva) col volume e l’energia dell’accumulazione del capitale, inchioda l’operaio al capitale più dei cunei di Efesto che inchiodarono alla roccia Prometeo. Tale legge causa un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. Così l’accumulazione di ricchezza a un polo equivale all’accumulazione di miseria, lavoraccio, schiavitù, ignoranza, degradazione morale e apoteriosi al polo opposto (cioè dal lato della classe che produce prodotti sotto forma di capitale» [Marx: Capitale I, XXIII, 4].
Chieder al modo di produzione capitalistico un’altra distribuzione di prodotti è come chieder agli elettrodi di una batteria di non scomporre l’acqua mentre sono collegati alla batteria, inviando ossigeno al polo positivo e idrogeno al polo negativo.
Spiegato come la perfettibilità della macchina moderna spinta al grado estremo dall’anarchia della produzione nella società, muti in un obbligo di legge per il singolo capitalista industriale a migliorar le sue macchine costantemente, a elevarne sempre la forza produttiva. Del pari muta in legge la semplice possibilità di estendere l’ambito della produzione. L’enorme forza espansiva della grande industria, ante la quale l’espansione dei gas è una bagatella, si palesa ora come un bisogno d’espansione qualitativa e quantitativa che sfida ogni compressione contraria. La compressione sono il consumo, lo smercio, i mercati pei prodotti della grande industria. Ma la possibile espansione dei mercati (sia estensiva sia intensiva) segue leggi diverse, che agiscono in modo molto meno energico. L’espansione dei mercati non può eguagliar l’espansione della produzione. La collisione è inevitabile e diviene periodica poiché non può aver soluzione senza elider il modo di produzione capitalistico. La produzione capitalistica crea un nuovo «circolo vizioso».
Infatti dal 1825 (l’anno della prima crisi generale) tutto il mondo industriale e commerciale, la produzione e lo scambio di tutti i popoli civili e delle loro appendici più o meno barbariche, si sfasciano pressappoco ogni 10 anni. Il traffico langue; i mercati sono saturi; i prodotti restano ammucchiati quanto inesitabili; il denaro contante viene nascosto; il credito svanisce; le fabbriche chiudono; le masse operaie restano senza mezzi di sussistenza per aver prodotto troppi mezzi di sussistenza; bancherotte e vendite all’asta si susseguono. La stasi dura anni, forze produttive e prodotti sono dissipati e distrutti assai, finché i cumuli di merci defluiscono con un gran deprezzamento e produzione e scambio si rimettono gradualmente in moto. Gradualmente la loro andatura accelera, muta in trotto, il trotto dell’industria muta in galoppo, il quale accelera fino a far una sfrenata corsa a ostacoli industriale, commerciale, creditizia e speculativa per ricadere infine, dopo salti mortali, nel fosso del crac. E così via da capo. Tutto ciò lo abbiamo sperimentato ben sei volte dal 1825 al 1877, e in questo anno 1878 lo stiamo sperimentando per la settima volta. La caratteristica di tali crisi è così evidente che Fourier le definì tutte quante definendo la prima crise pléthorique: crisi di sovrapproduzione.
Nelle crisi la contraddizione fra produzione sociale e appropriazione capitalistica assume forma violenta. La circolazione di merci si arresta; il mezzo della circolazione, il denaro, muta in ostacolo per la circolazione; tutte le leggi della produzione e della circolazione delle merci sono sovvertite. La collisione economica raggiunge l’acme: il modo della produzione si ribella contro il modo di scambio.
Che l’organizzazione sociale della produzione appo la fabbrica arrivi al punto di divenir incompatibile con l’anarchia della produzione appo la società (dominandola dall’esterno), si appalesa ai capitalisti stessi con la forte concentrazione dei capitali c’è durante le crisi, con la rovina di molti capitalisti e di molti più piccoli capitalisti. L’intero meccanismo del modo di produzione capitalistico cede alla pressione delle forze produttive da lui stesso create. Esso non sa più mutare in capitale (in sfruttamento della forza-lavoro) tutta questa massa di mezzi di produzione; onde giacciono inoperosi e pure l’esercito industriale di riserva resta inoperoso. Mezzi di produzione, mezzi di sussistenza, operai disponibili, tutti gli elementi della produzione e della ricchezza generale abbondano; ma la «sovrabbondanza diviene fonte di miseria e di penuria» [Fourier] perché è proprio essa che impedisce ai mezzi di produzione e di sussistenza di mutar in capitale. Infatti nella società capitalistica i mezzi di produzione possono attivarsi solo mutando prima in capitale, in mezzi per lo sfruttamento della forza-lavoro umana. La necessità che i mezzi di produzione e di sussistenza assumano il carattere di capitale si erge come uno spettro fra essi e gli operai. Tale necessità da sola impedisce il contatto fra le leve reali e le leve personali della produzione; essa sola vieta ai mezzi di produzione di funzionar e agli operai di lavorar e di viver. Così da un lato è esibita l’incapacità del modo capitalistico di produzione di seguitar a diriger tali forze produttive; dall’altro tali forze produttive sono sollecitate a elider la contraddizione, a togliersi la loro qualità di capitale, a riconoscer il loro carattere di forze produttive sociali.
Tale crescente reazione delle forze produttive al proprio carattere di capitale, tale progressiva ricognizione della loro natura sociale, obbliga pure la classe capitalistica a trattarle sempre più da forze sociali di produzione (nella misura consentita dall’essenza capitalistica). Sia il periodo di grande prosperità industriale col suo credito gonfiato all’estremo, sia lo stesso crac col crollo di grandi imprese capitalistiche, spingono a forme maggiori di socializzazione di mezzi di produzione, esibite dai vari tipi di S.p.A. Molti di tali mezzi di produzione e di scambio sono fin dall’inizio sì enormi da escluder ogni altra forma di sfruttamento capitalistico (es. le ferrovie). Ma ad un ulteriore grado di sviluppo pure tale forma è insufficiente. I grandi produttori nazionali di uno stesso ramo dell’industria si riuniscono in un trust (in un’associazione con lo scopo di regolare la produzione): fissano la quantità totale da produrre, se la ripartiscono fra di loro ed impongono il prezzo di vendita così stabilito a priori. Ma tali trust nei periodi di crisi perlopiù si sciolgono, onde serve una forma di socializzazione ancor più concentrata: tutto il ramo industriale muta in un’unica grande società per azioni; la concorrenza nazionale cede il posto al monopolio nazionale di tale unica società; così capitò nel 1890 colla produzione inglese dell’alcali che ora (fuse tutte le 48 grandi fabbriche) è esercitata da un’unica grande società a direzione unica con un capitale di 120 milioni di marchi.
Nel trust la libera concorrenza precipita in monopolio, la produzione non pianificata della società capitalistica perde contro la produzione pianificata dell’irrompente società socialista (benché all’inizio ancora a vantaggio dei capitalisti). Ma ivi lo sfruttamento è così palese che deve crollar. Niun popolo tollererebbe una produzione diretta da trust, uno sfruttamento della collettività sì evidente fatto da una piccola banda di tagliatori di cedole.
Comunque, con o senza trust, il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve diriger la produzione.*2 L’uopo di mutar in proprietà statale si vede anzitutto nei grandi organismi di comunicazione (poste, telegrafi, ferrovie).
Se le crisi hanno esibito l’incapacità della borghesia a seguitar a diriger le moderne forze produttive, la mutazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società per azioni, trust e in proprietà statale esplica che la borghesia è superflua per ottenere tale fine. Ogni funzione sociale del capitalista è ora svolte da impiegati salariati. I capitalisti non hanno più alcuna attività sociale salvo intascar rendite, tagliar cedole e giocar in borsa, dove si spogliano a vicenda dei loro capitali. Il modo di produzione capitalistico inizia col soppiantar gli operai, e oggi soppianta i capitalisti e li relega fra la popolazione superflua come gli operai (benché all’inizio non li releghi fra l’esercito di riserva industriale).
Ma le forze produttive nelle mani di S.p.A. o trust o dello Stato non perdono ancora il carattere di capitale. Esso è palese nelle società per azioni e nei trust. E lo Stato moderno rimane l’organizzazione che la società borghese si dà per difendere le condizioni generali esterne del modo di produzione capitalistico dalle pretese sia degli operai sia dei singoli capitalisti.
Qualsiasi forma di Stato moderno è per natura una macchina capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Più lo Stato si prende le forze produttive, più diviene un capitalista collettivo, più sfrutta i cittadini. Gli operai restano salariati e proletari. Il rapporto capitalistico fra salariato e salariante è spinto all’apice anziché eliso. Ma giunto all’apice si ribalta. La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma porta in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione.
Tale soluzione può esser solo riconoscer la natura sociale delle moderne forze produttive, cioè il modo di produzione, di appropriazione e di scambio va messo in accordo col carattere sociale dei mezzi di produzione. Ciò può capitar solo se, apertamente e affatto, la società s’impadronisca delle forze produttive (ormai troppo forti per subir ogni altra minore direzione). Così il carattere sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti (che oggi si volge contro gli stessi produttori, che sconvolge periodicamente il modo di produzione e di scambio e si impone con forza possente e distruttiva solo come cieca legge naturale) è riconosciuto dai produttori e muta (da causa di turbamento e di crisi periodiche) nella più potente leva della produzione stessa.
Le forze socialmente attive operano proprio come le forze naturali: in modo cieco, violento, distruttivo, finché non le conosciamo e non facciamo i conti con esse. Ma una volta conosciute e capito il loro modo d’agire, le direttive e gli effetti, dipende solo da noi sottometterle sempre più al nostro volere e usarle per raggiunger i nostri fini. Ciò vale specialmente per le odierne potenti forze produttive, da sottometter a produttori associati. Finché ostinatamente ci rifiuteremo di intenderne la natura e il carattere (e l’intelligibilità è ostacolata dal modo di produzione capitalistico e dai suoi sostenitori), tali forze agiranno malgrado noi e contro di noi, e ci domineranno nel modo suesposto. Ma una volta che sia capita la loro natura, in mano ai produttori associati, le forze produttive possono mutar da demoniache dominatrici in docili serve. È la stessa differenza fra la forza distruttiva dell’elettricità nel fulmine della procella e l’elettricità domata dal telegrafo e della lampada ad arco; la differenza fra l’incendio e il fuoco che agisce al servizio dell’uomo. Così quando le odierne forze produttive saranno stimate secondo la loro natura infine nota, una regolamentazione socialmente pianificata della produzione (secondo i bisogni sia della comunità sia di ogni singolo) sostituirà l’anarchia sociale della produzione. Così il modo di appropriazione capitalistico (in cui il prodotto asservisce perfino l’appropriatore, oltre al produttore,) è sostituito dal modo di appropriazione dei prodotti in base alla natura dei moderni mezzi di produzione stessi: da un lato l’appropriazione sociale diretta come mezzo per mantener e allargar la produzione, dall’altro un’appropriazione individuale diretta come mezzo di vita e di piacere.
Il modo di produzione capitalistico muta sempre più la grande maggioranza della popolazione in proletari, creando la forza che o morirà o compirà tale rivolgimento. Spingendo sempre più alla statalizzazione dei grandi mezzi di produzione socializzati, esso si mette sulla via di tale ribaltamento. Il proletariato ottiene il potere dello Stato e anzitutto muta i mezzi di produzione in proprietà statali. Ma così si elide come proletariato, elide ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe con ciò elide lo Stato come Stato. Le società finora esistite, moventesi in antagonismi di classe, necessitavano dello Stato, cioè di un’organizzazione della classe sfruttatrice per mantener le condizioni di sfruttamento, cioè per mantener classe sfruttata nelle condizioni di sfruttamento (schiavitù, servitù della gleba o semiservitù feudale, lavoro salariato) richieste dal modo di produzione coevo. Lo Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società, la sua incarnazione; ma in realtà era lo Stato della classe sorta a rappresentare tutta la società: nell’antichità era lo Stato dei cittadini aventi schiavi; nel Medioevo era lo Stato dei signori feudali, ai giorni nostri lo Stato della borghesia. Ma, diventando infine l’effettivo rappresentante di tutta la società, lo Stato si rende superfluo da sé. Tostoché spariscono classi sociali da mantenere oppresse, tostoché sono banditi il dominio di classe e la lotta per l’esistenza individuale basata sull’anarchia della produzione finora esistente (e su cui conflitti e sugli eccessi che ne derivano), allora non ci sarà più alcunché da reprimer rendendo inutile un certo potere repressivo, lo Stato. Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società (la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della società) è pure l’ultimo suo atto autonomo in quanto Stato. L’intervento di un potere statale nei rapporti sociali diventa superfluo in un settore dopo l’altro finché a svanir. Al un governo sulle persone si sostituisce l’amministrazione di cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato non va «abolito»: si estingue da sé. È questo che significa la frase dello «Stato popolare libero» [Marx: Critica del programma di Gotha ] sia per la sua giustificazione temporanea in sede di agitazione, sia per la sua definitiva insufficienza in sede scientifica; del pari il suo significato deve essere usato per valutar pretesa dei cosiddetti anarchici che lo Stato debba essere abolito dall’oggi al domani.
Il possesso di ogni mezzo di produzione da parte della società, fin dall’apparir storico del modo di produzione capitalistico, è stato pensato più o meno oscuramente da singoli o da intere sette come un futuro ideale. Ma per divenir una necessità storica servivano le condizioni materiali della sua attuazione. Ogni progresso sociale diviene effettuabile mercé certe nuove condizioni economiche (non mercé la conoscenza acquisita che l’esistenza delle classi è ingiusta, contro l’eguaglianza, etc.; non mercé la sola volontà d’abolir tali classi). La divisione della società in una classe sfruttatrice e una classe sfruttata, in una classe dominante e una classe oppressa, segue d’uopo dal precedente sviluppo limitato della produzione. Se il comune lavoro sociale fornisce solo un provento eccedente solo di poco ciò che è uopo per un’esistenza grama di tutti, cioè se il lavoro esige tutto o quasi tutto il tempo della maggioranza dei membri della società, allora la società si divide in classi.
Accanto a tale grande maggioranza dedita solo al lavoro, si forma una classe libera dal lavoro direttamente produttivo, incaricata degli affari comuni della società: direzione del lavoro, affari di Stato, giustizia, scienza, arti, etc. Onde la divisione in classi si basa sulla legge della divisione del lavoro. Tale divisione in classi è comunque attuata con forza e rapina, astuzia e inganno4 e la classe divenuta dominante ha sempre artato il suo dominio a spese della classe lavoratrice e mutato la direzione della società in crescente sfruttamento delle masse.
Ma una certa giustificazione storica della divisione in classi vale solo per una certa epoca, per certe condizioni sociali. La divisione in classi segue dalla produzione insufficiente e sarà elisa dal pieno sviluppo delle moderne forze produttive. Infatti, l’elisione delle classi sociali esige un grado di sviluppo storico in cui (nonché l’esistenza di certe classi dominanti) l’esistenza in generale di qualsiasi classe dominante (cioè la stessa differenza di classe) sia divenuta un anacronismo, un vecchiume. Cioè la fine della divisione in classi presuppone un alto grado di sviluppo della produzione in cui l’impossessarsi dei mezzi di produzione e dei prodotti nonché del potere politico, del monopolio educativo e della direzione spirituale da parte di una certa classe è divenuto (nonché superfluo) un ostacolo allo sviluppo economico, politico, intellettuale. Oggi siamo a tale punto. Se la borghesia non ha ancora capito il suo fallimento politico e intellettuale, il suo fallimento economico si ripete regolarmente ogni dieci anni. In ogni crisi la società affoga nelle proprie forze produttive e nei propri prodotti inesitabili, ed è impotente ante l’assurda contraddizione che i produttori non possono consumare perché mancano i consumatori. La forza di espansione dei mezzi di produzione strappa i lacci che il modo di produzione capitalistico ha imposto loro. La loro liberazione da tali lacci è la sola condizione mancante d’uno sviluppo continuo e sempre accelerato delle forze produttive, cioè di un incremento praticamente illimitato della produzione stessa. Di più: l’appropriazione sociale dei mezzi di produzione (oltre all’ostacolo artificiale della produzione) elide la distruzione reale di forze produttive e di prodotti tipica della produzione attuale e che tocca l’acme nelle crisi. Inoltre l’appropriazione sociale dei mezzi a disposizione della collettività una massa di mezzi di produzione e di prodotti, rendendo impossibile l’assurdo contraddistinguersi per il lusso come le classi oggi dominanti e i loro rappresentanti politici. Colla produzione sociale esiste ora per la prima volta (ma esiste) la possibilità di garantir a ogni membro della collettività (nonché un’esistenza affatto materialmente sufficiente e ogni giorno più ricca) pure il libero sviluppo e il libero esercizio delle loro facoltà fisiche e spirituali.*3
La società appropriantesi dei mezzi di produzione non produrrà più merci (per cui il prodotto domina il produttore). L’anarchia all’interno della produzione sociale sarà sostituita dall’organizzazione cosciente pianificata. Cessa la lotta per l’esistenza individuale e per la prima volta l’uomo si separa affatto dal regno animale (passando da condizioni d’esistenza ferine a condizioni d’esistenza affatto umane). Le condizioni di vita che finora hanno dominato gli uomini sono ora dominate e controllate dagli uomini, divenendo per la prima volta padroni della natura coscienti e reali poiché padroni della loro organizzazione sociale. Le leggi del loro agire sociale (finora di fronte agli uomini come leggi naturali esterne e padrone) ora sono applicate dagli uomini con piena cognizione di causa, cioè dominate. L’organizzazione sociale degli uomini (finora data loro come necessità imposta dalla natura e dalla storia) diviene ora l’atto della loro libera azione. Le forze obiettive ed estranee dominanti finora la storia passano sotto controllo degli uomini stessi. Tale momento è l’inizio della storia autentica che gli uomini faranno con piena coscienza, e le cause sociali messe in moto da loro produrranno in misura sempre crescente gli effetti che loro hanno voluto. Ecco il salto dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà.5 RIASSUMIAMO BREVEMENTE, PER CONCLUDERE, IL CAMMINO CHE ABBIAMO PERCORSO. I. Società medioevale.
Piccola produzione individuale. Mezzi di produzione adattati all’uso dei singoli (primitivi, fallaci, di effetti scarsi). Produzione per l’uso immediato sia del produttore sia del suo feudatario. Solo se c’è un’eccedenza di prodotti sul consumo, tal eccedenza è offerta venduta e diviene scambiabile: qui la produzione di merci è solo sul nascere, ma contiene già in sé, in nuce, l’anarchia nella produzione sociale. II. Rivoluzione capitalistica.
Mutazione dell’industria dapprima colla cooperazione semplice e la manifattura. Concentrazione in grandi officine dei mezzi di produzione prima sparsi: mutazione di essi da mezzi di produzione individuali a mezzi di produzione sociali: mutazione che non tocca in complesso la forma dello scambio: le vecchie forme di appropriazione restano. Appare il capitalista: proprietario dei mezzi di produzione che si appropria pure dei prodotti e li rende merci. La produzione è divenuta un atto sociale; lo scambio e con esso l’appropriazione restano atti individuali, atti del singolo. Il prodotto sociale diviene possesso del capitalista singolo. Contraddizione fondamentale da cui sorgono le altre contraddizioni fra le quali si muove la società odierna e che la grande industria esibisce chiaramente.
A. Separazione del prodotto dai mezzi di produzione. Condanna dell’operaio al lavoro salariato vita natural durante. Antagonismo fra proletariato & borghesia.
B. Crescente rilievo e progressiva efficacia delle leggi dominanti la produzione di merci. Sfrenata lotta di concorrenza. Contraddizione fra organizzazione sociale della singola fabbrica & anarchia sociale della produzione generale.
C. Da un lato perfezionamento delle macchine, reso dalla concorrenza obbligatorio per ogni singolo industriale e che equivale ad un sempre crescente licenziamento di operai: esercito industriale di riserva. Dall’altro lato estensione illimitata della produzione resa del pari obbligatoria dalla concorrenza per ogni singolo industriale. Da ambi i lati sviluppo inaudito delle forze produttive, eccesso di offerta sulla domanda, sovrapproduzione, mercati saturi, crisi decennali, circolo vizioso: lì eccedenza di mezzi di produzione e di prodotti, là eccedenza di operai disoccupati e inopi; ma tali due leve della produzione e del benessere sociale non possono andare insieme poiché la forma capitalistica della produzione impedisce alle forze produttive di agire, ai prodotti di circolare, senza prima mutar in capitale: il che è impedito proprio dal loro eccesso. La contraddizione si spinge all’assurdo: il modo di produzione si ribella contro il modo dello scambio. È provato che la borghesia è incapace di seguitare a dirigere le proprie forze produttive sociali.
D. Obbligatorio riconoscimento parziale del carattere sociale delle forze produttive da parte del capitalista. Appropriazione di grandi organismi di produzione e di traffico, prima da parte di società per azioni, poi di trusts e infine dello Stato. La borghesia prova di essere una classe superflua, tutte le sue funzioni sociali sono ora compiute da impiegati stipendiati. III. Rivoluzione proletaria.
Soluzione delle contraddizioni: il proletariato conquista il potere pubblico con cui potere muta i mezzi di produzione sociale (fuori dal controllo borghese) in proprietà pubblica. Con tale atto il proletariato libera i mezzi di produzione dal carattere di capitale che finora essi avevano e dà al loro carattere sociale la piena libertà di attuarsi. Diviene possibile una produzione sociale pianificata. Lo sviluppo della produzione rende anacronistica l’ulteriore esistenza di classi sociali distinte. Man mano che sparisce l’anarchia della produzione sociale, sparisce pure l’autorità politica dello Stato. Gli uomini, finalmente padroni della loro forma di organizzazione sociale, diventano padroni della natura e padroni di sé stessi, liberi. È missione storica del proletariato moderno compiere tale azione liberatrice. È missione del socialismo scientifico (espressione teorica del movimento proletario) studiare a fondo le condizioni storiche e la natura dell’azione liberatrice dando così alla classe oggi oppressa ma chiamata all’azione la coscienza delle condizioni e della natura della sua dovuta azione.
Note
*1. Ivi non serve spiegar che, benché la forma di appropriazione resti la stessa, il carattere dell’appropriazione e la produzione siano rivoluzionati dal processo descritto testé. Appropriarsi del prodotto o mio o altrui, sono due tipi di appropriazione. Inoltre: il lavoro salariato, che sta in luce in tutto il modo di produzione capitalistico, è molto antico: per secoli è esistito accanto alla schiavitù in modo sporadico e sparso. Ma il germe si sviluppò fino al modo di produzione capitalistico solo allorché si produssero le condizioni storiche necessarie. [Nota di Engels]↩
*2. Dico “deve” perché solo se i mezzi di produzione o di comunicazione crescano davvero troppo per essere diretti da società per azioni, cioè se la statizzazione diviene economicamente inevitabile, solo in questo caso (benché fatta dallo Stato attuale) allora è un progresso economico, una compiuta fase preliminare della presa di possesso di tutte le forze produttive da parte della società. Ma di recente (poiché Bismarck si è dato a statizzare) è apparso un falso socialismo (pure in forma servile) che definisce socialistica qualsiasi statizzazione, inclusa quella di Bismarck. Ma se la statizzazione del tabacco fosse socialista, allora Napoleone e Mettemich sarebbero i fondatori del socialismo. Se per motivi politici e finanziari oggi frequenti lo Stato belga ha costruito da sé le sue ferrovie, se Bismarck senza alcuna necessità economica ha statizzato le maggiori linee ferroviarie prussiane anzitutto per manovrarle meglio in caso di guerra, oltretutto per rendere i ferrovieri elettori clientelari del governo, soprattutto per procurarsi una nuova fonte di entrate indipendente dalle decisioni del parlamento: tali non sono state affatto misure socialiste né dirette né indirette, né volenti né nolenti. Altrimenti sarebbero istituzioni socialiste pure le regie compagnie di commercio marittimo, la regia manifattura delle porcellane, perfino i sarti militari o magari la statizzazione dei… bordelli, proposta davvero da un Antonio Razzi degli anni ‘40 dell’800, sotto Federico Guglielmo III. [Nota di Engels]↩
*3. Poche cifre bastano fanno capire l’enorme forza espansiva dei moderni mezzi di produzione pure sotto la pressione capitalistica. Secondo gli ultimi calcoli di Robert Giffen, la ricchezza complessiva in Gran Bretagna e Irlanda in cifra tonda è:
1814 | 2.200 milioni di sterline | = | 44 milioni di marchi |
1865 | 6.100 milioni di sterline | = | 122 milioni di marchi |
1875 | 8.500 milioni di sterline | = | 170 milioni di marchi |
Per quanto riguarda la distruzione dei mezzi di produzione e dei prodotti nelle crisi al secondo congresso degli industriali tedeschi (Berlino, 21 febbraio 1878) già solo la perdita complessiva dell’industria siderurgica tedesca nell’ultimo crac fu valutata a 455 milioni di marchi al secondo congresso degli industriali tedeschi, Berlino, 21 febbraio 1878 [Nota di Engels]↩
1. Parole di Mefistofele nel Faust di Goethe.↩
2. Per Marx, tale contraddizione si supera elidendo «il modo di produzione capitalistico, conservando però la produzione sociale» [Capitale, III, XLIX]. Al contempo, il comunismo «elide la base di tutti i rapporti di produzione e le forme di produzione finora esistite; e per la prima volta tratta coscientemente tutti i presupposti naturali come creazione degli uomini finora esistiti, li priva del loro carattere naturale, e li assoggetta al potere degli individui uniti» [Ideologia tedesca, Libro primo, I. Feurbach, C]. Il ruolo del proletariato e l’obbiettivo del comunismo consistenze esattamente nel superamento di questa contraddizione.↩
3. Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra combatterono guerre commerciali (nel ‘600 e nel ‘700) per il dominio dei traffici commerciali con l’America e l’India (ergo per la colonizzazione di quelle terre). Vinse l’Inghilterra che dominò il commercio mondiale fino alla fine dell’800.↩
4. Engels allude polemicamente alla teoria di Dühring secondo cui la divisione della società in classi è dovuta solo alla violenza.↩
5. Engels precisa nell’Antidühring: «Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. “Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa”. La libertà è la conoscenza delle leggi naturali che permetta di farle agir dietro un piano per determinati fini, non è l’immaginaria indipendenza da tali leggi. Ciò vale sia per le leggi della natura esterna, sia per le leggi dell’esistenza fisica e spirituale umana» [1, 9]. ↩]
La marca
Friedrich Engels (1882)
Questa è l’appendice di Engels all’edizione tedesca del 1882 de L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, generalmente rimossa da tutte le edizioni.
Questa traduzione anonima, opera forse di esuli dal fascismo, proviene da: Il passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza, Edizioni italiane di coltura sociale, Paris, 1931, pp. 84-102.
Trascritto da Leonardo Maria Battisti, dicembre 2017
In un paese, come la Germania, dove una buona metà della popolazione vive dei proventi dell’agricoltura, è necessario che gli operai socialisti, e, per mezzo loro, i contadini conoscano per quali vie si sia organizzata l’odierna proprietà terriera, grande e piccola, e che la miseria odierna dei salariati giornalieri e l’odierna schiavitù per debiti dei piccoli contadini vengano paragonate con l’antica proprietà comune di tutti i liberi, nella quale ciò che allora fu per essi veramente una «patria» era altresì un possesso comune ereditato. Darò quindi una breve esposizione storica di quell’antico regime agricolo tedesco, di cui ancora sussistono tracce, ma che in tutto il Medioevo servì, non solo di fondamento e modello alla costituzione politica e alla vita sociale tedesca, ma penetrò eziandio nella Francia del Nord, in Inghilterra, in Scandinavia, e sarebbe caduto in oblio se, negli ultimi tempi, il sig. G. L. Maurer non ne avesse rimesso in evidenza la reale importanza.
Due fatti naturali dominano la preistoria di tutti o quasi tutti i popoli: le relazioni di parentela e la proprietà collettiva del suolo. Così accadde ai Tedeschi. Come essi avevano recato dall’Asia una struttura sociale varia a seconda del linguaggio, della parentela, della famiglia; come essi, anche al tempo dei Romani, formavano le loro schiere in maniera che i più stretti congiunti stessero l’uno a fianco dell’altro; così questa struttura sociale si mantenne intatta dopo le ulteriori conquiste ad occidente del Reno e a settentrione del Danubio. Ogni gente pigliava domicilio, non secondo il capriccio od il caso, ma, come Cesare afferma esplicitamente, secondo la parentela che legava i singoli individui.
Ai gruppi più numerosi e più strettamente imparentati toccava un tratto di territorio, nel quale, le singole famiglie, costituenti tutta la «gens», si domiciliavano in un villaggio. Più villaggi di congiunti formavano una «centuria», che nell’antico tedesco era detta «huntari» e nell’antico dialetto nordico «häradh»; più centurie, un «gau» («distretto») e l’insieme dei «gau» costituiva il popolo germanico.
Il territorio, che la «gens» non pigliava per sé, rimaneva a disposizione della centuria; la parte non assegnata alle centurie, a disposizione del e «gau»; ciò che poi rimaneva ancora disponibile — in genere una contrada molto estesa — rimaneva quale possedimento immediato di tutto il popolo. Così, in Svezia, noi troviamo l’uno accanto all’altro tutti questi differenti gradi di proprietà comune del suolo. Ogni villaggio ha il suo territorio d’uso civico (bys allmänningar), e, insieme con questo, si ha un territorio d’uso civico per la «centuria» («härads»), uno pel «gau» ed uno di proprietà del re, quale rappresentante di tutto il popolo, detto ivi «konungs allmänningar». Ma tutti, compreso il territorio regio, sono detti, senza distinzione alcuna, «allmänningar», cioè territori comuni.
Se la proprietà collettiva dell’antica Svezia, colle sue specifiche suddivisioni, corrispondenti di certo a un più ampio grado di sviluppo, è esistita anche in Germania, essa è tosto scomparsa.
Il rapido incremento della popolazione generò su ogni estensione di territorio assegnata ai singoli villaggi, o, per meglio dire, sulla marca, un numero di piccole colonie villerecce, le quali, insieme con la madrepatria, come fornite di diritti eguali o minori, costituirono un’unica associazione marchigiana, di cui, secondo le fonti, troviamo esempi copiosissimi in tutta la Germania.
Al di sopra di queste associazioni stavano, almeno nei primi tempi, anche le più grandi associazioni marchigiane della centuria e del «gau», e finalmente l’intero popolo formava in origine un’unica grande associazione intenta all’amministrazione del territorio rimasto in suo immediato possesso, e alla sopraintendenza delle marche soggette ed a lui appartenenti.
Fino al tempo in cui la monarchia francese soggiogò la Germania ad oriente del Reno, sembra che il «gau» abbia costituito il centro dell’associazione marchigiana; e ciò spiega il fatto che molte antiche e grandi marche, in seguito all’ufficiale divisione del regno, siano riapparse come «gaue» giudiziari. Ma cominciò tosto la distruzione delle grandi antiche marche. Tuttavia, fino al tempo dell’Impero, o, per meglio dire, fino ai secoli XIII e XIV, ogni marca comprendeva di regola da sei a dodici villaggi.
Al tempo di Cesare, almeno una gran parte dei Germani, specie gli Svevi, popolazione ancora nomade, coltivavano la terra in comune; e, come noi siamo costretti ad ammettere per analogia cogli altri popoli, i singoli membri, le famiglie della «gens» coltivavano in comune il terreno loro assegnato, che di anno in anno si scambiavano a vicenda, ripartendo poscia in maniera analoga i prodotti.
Ma, quando anche gli Svevi, al principio della nostra era, conseguirono nuove sedi stabili, questa usanza ebbe termine. Tacito, vissuto centocinquanta anni dopo Cesare, conosce solo la coltivazione di dati territori per famiglie; ma anche a queste famiglie la terra era data a coltivare anno per anno, e ogni anno essa subiva di bel nuovo una permuta.
Come ciò avvenisse noi possiamo rilevare anche oggi da quanto avviene sulla Mosella e nelle così dette masserie delle antiche foreste. Cola, non annualmente, ma ogni tre, ogni sei, ogni nove, e, magari, ogni dodici anni, tutta la terra coltivata sia a campi che a prato viene ripartita in un numero determinato di «gewann», a seconda della situazione e della qualità del terreno. Ogni «gewann» si divide a sua volta in numerose porzioni eguali, lunghe e sottile strisce di terreno, che vengono a loro volta sorteggiate tra coloro cui spettano, cosicché ognuno, in ogni «gewann» possiede una porzione almeno in origine egualmente estesa, di qualsiasi genere di terreno.
Attualmente le varie porzioni sono divenute ineguali per eredità, vendite, ecc.; ma l’antica porzione rappresenta sempre l’unità, da cui si staccano le mezze porzioni, i quarti di porzione, gli ottavi, ecc.
Il terreno, poi, non coltivato, ad esempio, i boschi ed i pascoli, rimane possesso comune per gli usi comuni.
Quest’antica istituzione era fino al principio del nostro secolo perdurata nei così detti «beni sorteggiati» del Palatinato bavarese renano, la cui terra è dopo quel tempo divenuta proprietà privata dei singoli soci. Anche le masserie si accorgono ogni giorno più di agire meglio nel proprio interesse, smettendo dalle sempre nuove permute e trasformando il possesso, che prima esse scambiavano a vicenda, in stabile proprietà privata. Così, negli ultimi quaranta anni, esse si sono in maggioranza trasformate in villaggi abitati da piccoli contadini con comune uso dei boschi e dei pascoli.
Il primo boccone di terra, che doveva trasformarsi in proprietà privata, era quello sui cui sorgeva la dimora di ciascun socio. L’inviolabilità dell’abitazione, fondamento di ogni libertà personale, passò dal carro pel trasporto delle tende, in uso durante le migrazioni, alla stabile casa di pietra del contadino, e si tramutò a poco a poco nel pieno diritto di proprietà sulla casa e sulla masseria. Questa mutazione era già avvenuta ai tempi di Tacito. Il domicilio del libero tedesco non doveva allora rientrare più nella marca e, reso inaccessibile agli impiegati della medesima, dovette essere trasformato in un sicuro luogo di rifugio per i fuggitivi, come noi lo troviamo nei più tardi ordinamenti marchigiani ed in parte nel diritto nazionale dei secoli V-VIII. Infatti il carattere sacro del focolare domestico non era l’effetto, ma il motivo della sua trasformazione in proprietà privata.
Quattrocento o cinquecento anni dopo Tacito, noi troviamo nel diritto popolare, che anche il terreno coltivato figura come possesso ereditario dei singoli contadini, anche se non incondizionatamente libero. Questi avevano il diritto di venderlo o di cederlo, e circa i motivi di questa trasformazione noi possiamo arrischiare due ipotesi.
Anzitutto, in origine, nella stessa Germania, accanto ai villaggi di già formati con assoluta comunanza di territorio, si ebbero dei villaggi, nei quali, oltre al domicilio, anche i campi estranei alla comunità, la Marca, erano ripartiti con diritto d’eredità ai singoli contadini. Ma ciò accadeva soltanto là dove il provvedimento era per così dire imposto dalla natura del terreno; nelle valli anguste di qualche paese e sugli stretti ed alti gioghi chiusi da paludi, come in Westfalia. Più tardi ciò si ritrova anche nell’Odenwald e in quasi tutte le valli alpine. Qui il villaggio, come al giorno d’oggi, constava di masserie sparse, ognuna delle quali era circondata dai campi che le appartenevano. La permuta del terreno non era quindi agevole, e così alla marca rimase solo l’incolta campagna circostante; e, quando più tardi il diritto di disporre della casa e delle masserie, per via di cessioni a favore di terzi, crebbe d’importanza, i possessori delle medesime si trovarono in una condizione privilegiata. Il desiderio di conseguire questo privilegio, fece sì che in molti villaggi, insieme con la comunanza del territorio, venisse meno l’uso della permuta delle terre e le singole particelle di terreno divenissero ereditarie e trasmessibili.
Ma, d’altro canto, lo spirito di conquista trascinava i tedeschi sul territorio romano, dove da secoli la terra era divenuta libera proprietà privata, specie romana, e dove il ristretto numero dei conquistatori rendeva impossibile la soppressione di una così radicata forma di possesso. Questa stretta connessione della proprietà privata del suolo col diritto romano, almeno sul territorio romano, spiega il fatto, che i resti di proprietà collettiva, perdurati fino ai nostri giorni, su terreni coltivabili, si trovino per l’appunto sulla riva sinistra del Reno, cioè sul territorio conquistato, ma «completamente germanizzato», sì che quando i Franchi, nel V secolo, finirono per istabilirvisi, poterono non rinunziare alla comunanza dei campi.
Se, viceversa, così non fosse avvenuto, noi non potremmo oggi trovare cola traccia alcuna delle così dette masserie e dei «beni sorteggiati». Anche qui, tuttavia, penetrò tosto e vittoriosamente la proprietà privata, poiché noi non troviamo menzionata altra forma di terreni coltivabili nel diritto nazionale del sec. VI, quando nel cuore stesso della Germania la terra coltivata accennava, come s’è detto, a trasformarsi in proprietà privata.
Ma, se i Germani invasori accolsero la forma privata della proprietà dei campi e dei prati, cioè nella loro prima ripartizione delle terre, e poco di poi si astennero da nuove permute della proprietà, (in età più tarda non se ne riscontra infatti menzione alcuna), essi, per contro, introdussero dappertutto la loro costituzione marchigiana col comune possesso dei boschi e dei pascoli e con la prevalenza della marca anche sulla terra ripartita. Ciò non fu fatto solo dai Franchi della Gallia settentrionale e dagli Anglo-Sassoni, ma anche dai Burgundi, nella Gallia orientale, dai Visigoti, nella Provenza e nella Spagna, dagli Ostrogoti e dai Longobardi, in Italia. In queste regioni si sono, per quanto a noto, mantenute fino ai nostri giorni, sia pure unicamente sulle alte montagne, tracce della costituzione marchigiana.
L’aspetto che la costituzione della marca ha preso per l’abolizione delle rinnovate partizioni delle terre coltivate, a quello che noi riscontriamo, non solo nell’antico diritto nazionale dal secolo V al secolo VIII, ma anche nel diritto inglese e scandinavo medioevale, nei numerosi regolamenti germanici circa la delimitazione dei campi e dei boschi, che dal secolo XIII al secolo XVIII, tennero luogo di precedenti legali, a nel diritto consuetudinario della Francia settentrionale. Se però l’associazione marchigiana soppresse l’uso di ripartire di tempo in tempo i campi e le praterie fra i singoli soci, essa non rinunziò ad alcuno dei suoi restanti diritti su queste terre. E si trattava di diritti significantissimi! L’associazione aveva trasmesso i campi ai singoli soci, nell’esclusivo intento di meglio utilizzarli, quali campi e praterie, senza che però i singoli possessori potessero vantarvi alcun diritto.
Dei tesori infatti ritrovati nella terra, se questi giacevano alle profondità cui perveniva l’aratro, nulla apparteneva ad essi, ma tutto, in origine, alla comunità; non quindi il diritto di scavare miniere od altro analogo. Tutti questi diritti solo più tardi furono confiscati dai proprietari e dai principi nel proprio esclusivo interesse.
Ma anche il godimento dei campi e delle praterie era connesso all’alta sorveglianza e alle norme stabilite dall’associazione e nella maniera seguente.
Là dove, nella coltivazione e nella semina dei campi, dominava l’uso del triplice avvicendamento — e ciò era consuetudine pressoché universale — la zona rustica del villaggio veniva ripartita in tre grandi zone eguali di cui ognuna era a vicenda destinata per un primo anno alle sementi invernali, per un secondo alle estive, e per il terzo, lasciata a maggese. Il villaggio aveva quindi ogni anno il suo campo invernale, il suo campo estivo, ed il suo maggese. Nella divisione della terra era perciò curato che la parte di ogni socio fosse pari in tutti i tre campi, cosicché ognuno potesse senza svantaggio, adattarsi alle consuetudini dell’associazione, in quanto egli poteva seminare le sementi invernali solo nel suo campo invernale, le estive nell’estivo, ecc. ecc.
Il maggese ritornò a poco a poco comune possesso e servì quale pascolo comune a tutta l’associazione; e, tostoché sugli altri due campi era terminata la mietitura, anch’essi tornavano, sino al tempo della semina, comune possesso e venivano utilizzati quale pascolo comune. Analogo era il trattamento delle praterie per la falciatura del grumeccio.
Su tutti i campi, in cui si andava a pascere, era ingiunto ai possessori di rimuovere le siepi. Questo diritto del pascolo fece sì che, naturalmente, il tempo della semina, come della mietitura, non fosse stabilito dai singoli soci, ma fissato identicamente per tutti o dall’associazione o dall’uso. Tutto il rimanente territorio, cioè tutto l’agro rurale, che non era occupato da case o da masserie, rimaneva, come in origine, proprietà comune di uso comune. Tali erano i boschi, i pascoli, le macchie, le maremme, i fiumi, gli stagni, i mari, le vie, i porti, i terreni da caccia e da pesca, ecc. E, come, nei terreni marchigiani divisi, le porzioni dei singoli soci erano tutte eguali, altrettanto è a dire dell’utile nella «marca comune».
La natura di questo utile era determinata dalla totalità dei soci, come la maniera della divisione, nella eventualità che il terreno coltivato non rendesse più e si intraprendesse la coltivazione di un tratto della marca comune.
Ma il maggior utile derivava dal pascolo e dalle ghiande; inoltre il bosco rendeva legname da costruzione, legna da ardere, fogliame, bacche, funghi, e le paludi, se esistevano, torba.
Le norme sui pascoli, sull’uso del legname, ecc., costituiscono il principale contenuto delle numerose sentenze circa la delimitazione dei campi e dei boschi, tramandateci dai più svariati secoli e scritte al tempo in cui l’antico diritto consuetudinario orale cominciava ad essere controverso. Gli ancora esistenti boschi demaniali rappresentano l’estremo residuo di queste antiche marche collettive, e un’altra traccia, almeno nella Germania orientale e meridionale, se ne ha nell’idea profondamente radicata nella coscienza popolare, che il bosco è proprietà comune, nel quale ognuno può raccogliere fiori, bacche, funghi, ghiande, ecc., ed in cui, pur di non arrecare danno, è lecito fare ciò che si vuole. Ma anche qui Bismarck, con la sua famosa legislazione sulle ghiande, creò e ordinò le provincie occidentali sulla base dei «junker» dell’antica Prussia.
Come i soci possedevano uguali particelle di terreno e diritti uguali, avevano eziandio in origine parte uguale nella legislazione, nell’amministrazione, nei tribunali. A date fisse, o anche più spesso, se occorreva, essi si radunavano a cielo aperto per decidere sugli eventi della marca o per giudicare i delitti e distrigare le interne contese. Erano, in piccolo, l’antica assemblea popolare germanica, che originariamente era stata una grande assemblea marchigiana. Si emanavano eziandio, sebbene raramente, delle leggi, si nominavano degli impiegati e se ne rivedeva l’operato, ma innanzitutto si rendeva giustizia. Il presidente non aveva che a formulare i quesiti, il giudizio era dato dalla totalità dei soci presenti.
La costituzione marchigiana fu quindi con probabilità l’unica originaria costituzione di quelle schiatte germaniche, che non potevano vantare dei re; l’antica aristocrazia, perita durante le migrazioni popolari o poco dopo, come elemento originato in seno a questa costituzione, vi si ingranò agevolmente, non dissimile dall’aristocrazia dei «clan» celtici, i quali, fin dal secolo XVII, erano entrati a far parte della comunità del territorio irlandese. Ed essa piantò così salde radici in tutta la vita del popolo tedesco che noi ne troviamo le tracce a ogni passo del suo svolgimento.
In origine tutta l’azione del governo in tempo di pace, si riduceva all’amministrazione della giustizia, che, presso tutte le schiatte germaniche, spettava alla assemblea popolare della centuria o del «gau», nonché ai componenti di ciascuna famiglia.
Ma siffatto tribunale era l’antico tribunale marchigiano, in atto di giudicare quei casi, i quali non interessavano la sola marca, ma cadevano sotto la sanzione del pubblico potere. Anche quando lo sviluppo del «gau» rese la sua amministrazione giudiziaria indipendente da quella della marca, il potere giudiziario rimase al popolo. E, solo quando l’antica libertà popolare decadde, e l’obbligo di giudicare, insieme con l’obbligo del servizio militare, divenne un carico penoso per i liberi poveri, solo allora Carlo Magno poté in seno al «gau» sostituire, quasi del tutto, alle popolari assemblee giudiziarie, i tribunali degli scabini*1.
Ma ciò non abbatté i tribunali marchigiani. Questi, al contrario, rimasero a modello, delle medievali corti giudiziarie feudali, in cui il feudatario fungeva da interrogante e il vassallo da giudice.
La costituzione del villaggio è la costituzione marchigiana di una marca villica indipendente, ed accennerà a trasformarsi in costituzione cittadina, tostoché il villaggio si sarà mutato in città, cioè si sarà circondato di fossati e di mura.
Da questa originaria costituzione civico-marchigiana sono derivate tutte le più tarde costituzioni cittadine, e su di essa si sono modellati gli ordinamenti delle numerose associazioni libere medievali, che non ebbero a loro fondamento il comune possesso del suolo, specie le libere maestranze.
Il diritto conferito a queste corporazioni circa il disbrigo di determinati affari, era invero identico a quello della marca. Con identica gelosia, spesso con mezzi identici, le corporazioni curavano che la parte di utile spettante a ciascun membro riuscisse il più esattamente possibile pari a quella degli altri.
Questa maravigliosa capacità di adattamento della costituzione marchigiana, fin nei campi più differenti della vita pubblica e di contro alle più svariate esigenze, si palesa pure nel progressivo svolgimento della agricoltura e nella successiva lotta contro la grande proprietà terriera.
Originata dallo stabile insediamento dei Tedeschi in Germania, in una età, in cui l’allevamento del bestiame era la fonte precipua dell’economia sociale e le nozioni agricole recate dall’Asia e quasi dimenticate risorgevano di bel nuovo, la marca visse per tutto il Medio Evo in gravi ed incessanti lotte con l’aristocrazia della terra. Ma essa in ogni tempo risultò così necessaria che, specie là dove l’aristocrazia si era appropriato il territorio dei contadini, la costituzione dei villaggi sudditi, anche se gravemente diminuita dalle violenze feudali, rimase sempre una vera e propria costituzione marchigiana, — (noi ne menzioneremo un caso più innanzi) — e, fin quando una marca proprietà comune, esistette, essa serbò l’antica natura instabile della proprietà, così come gl’interessati serbarono uno svariatissimo diritto di proprietà sulla marca, appena questa cessò di essere libera.
Fu allora che quasi tutto il territorio, sia diviso che indiviso fra i contadini, passò sotto la libera rapina dei nobili e del clero, nonché sotto la benevola salvaguardia del principe.
Ma già il grande progresso, subito dall’agricoltura negli ultimi anni, aveva reso la marca inadeguata alle nuove esigenze economiche. La coltivazione dei campi assurgeva al grado di scienza, sottentravano nuove forme di cultura e la marca già si palesava priva di vitalità e di adattabilità.
La fine della costituzione marchigiana coincide con le prime migrazioni dei popoli germanici. I re dei Franchi, nella loro qualità di rappresentanti del popolo, assunsero allora il possesso degli sterminati territori appartenenti alla totalità dei sudditi, specie dei boschi, e li prodigarono ai loro cortigiani, ai loro generali, ai vescovi, agli abati. Essi inaugurarono così la discendenza dei grandi possessori del suolo, sia grandi aristocratici, che eccelsi membri del clero. Questi ultimi, anzi, già prima di Carlomagno, possedevano un terzo del suolo francese, ed è certo, che analoga situazione si ebbe per tutto il Medio Evo, in quasi tutta l’Europa cattolica occidentale.
Le continue guerre interne ed estere, le cui normali conseguenze erano le incessanti confische dei beni, rovinavano gran numero di contadini cosicché, fin dal tempo dei Merovingi, molti liberi erano senza possesso, il che è riprovato dal fatto che, nelle guerre incessanti compiute da Carlomagno, il nerbo degli eserciti imperiali fu costituito da contadini. In origine, ogni libero possessore di terre era obbligato al servizio militare e, non solo doveva pensare da sé al proprio equipaggiamento, ma doveva mantenersi per ben sei mesi sotto le armi. Nessuna meraviglia quindi che già al tempo di Carlomagno, solo un quinto degli uomini atti alle armi fosse in grado di arruolarsi nell’esercito. Sotto il dissoluto regime economico dei suoi successori, le condizioni della libertà dei contadini andarono peggiorando sempre più… Le invasioni normanne, le eterne guerre regie e le contese tra i grandi feudatari imponevano ai liberi contadini la necessità di invocare la protezione altrui, mentre l’aristocrazia feudale ed il clero, con astuzie, promesse, minacce e violenze, riducevano sempre più sotto il loro potere e le persone e le terre.
Nell’un caso, come nell’altro, il possesso del contadino veniva tramutato in possesso feudale o veniva tutt’al più concesso in affitto contro lo sborso di un censo annuo e la prestazione di lavoro servile. Ma il contadino veniva così tramutato da libero proprietario in suddito, o, per meglio dire, in servo della gleba.
Ben presto, non ostante la tenace resistenza dei contadini, l’aristocrazia feudale e il clero riuscirono a conquistare in molti luoghi dei veri e propri privilegi sulla marca e poterono assoggettare i primi al loro alto dominio di proprietari del suolo. Eppure, anche sotto questa tutela aristocratica, l’antica associazione marchigiana non cessò di esistere!
Quanto la costituzione marchigiana fosse ancora indispensabile all’agricoltura ed al latifondo, è infatti provato in maniera irrefutabile dalla colonizzazione del Brandenburgo e della Slesia, avvenuta per opera di coloni frisii, olandesi, sassoni e franco-renani.
Essi s’installarono colà, sin dal secolo XII, su una contrada appartenente a grandi aristocratici, vi formarono dei villaggi, pigliando a modello l’antico diritto tedesco, cioè l’antica costituzione marchigiana, tale quale si era mantenuta nelle corti signorili. Ognuno ebbe casa e masseria, ebbe in sorte una porzione della campagna del villaggio secondo l’antico costume, e il diritto d’uso del bosco e dei pascoli, specie del bosco di proprietà feudale, raramente della marca propriamente detta. Tutto ciò era ereditario; il latifondo rimaneva al signore, cui i coloni corrispondevano, con obbligo ereditario, fitti e prestazioni di servizi. Ma l’onere di queste prestazioni era così esiguo che i contadini si trovavano meglio che in altre regioni tedesche. Essi quindi, allorché più tardi scoppiò la guerra dei contadini, non si mossero, palesando un’indifferenza verso i loro propri interessi di cui ebbero amaramente a pentirsi.
Verso la meta del secolo XIII, sopravvenne una grande mutazione a favore dei contadini, una mutazione elaborata dalle Crociate.
Per essa molti cospicui grandi possessori del suolo emanciparono completamente i loro contadini; altri perirono; centinaia di schiatte aristocratiche si estinsero e i loro contadini conquistarono, e copiosamente, la libertà. Ne venne quindi che, col crescere delle necessità dei grandi feudatari, l’obbligo del lavoro da parte dei contadini riuscì assai più importante di quello della loro servitù personale. Il servaggio dei primi tempi del Medio Evo, che molto ancora serbava dell’antica schiavitù, avea conferito agli aristocratici dei diritti che, col tempo avevano perduto ogni valore, e il servaggio venne a poco a poco accostandosi alla semplice sudditanza.
Là, dove l’agricoltura rimaneva stazionaria, un aumento dei redditi feudali si ebbe solo dal dissodamento di nuove terre e dall’impianto di nuovi villaggi. Ma ciò poteva solo conseguirsi per via di transazioni amichevoli coi coloni, sia che fossero addetti ai possessi signorili o stranieri. Quindi noi troviamo in genere verso questo tempo precise convenzioni circa i lavori, per lo più moderati, dei contadini e buoni trattamenti a loro riguardo, specie nei domini posseduti dal clero.
Infine, la favorevole situazione dei nuovi coloni reagiva sulla situazione degli antichi sudditi, limitrofi ai loro possessi, cosicché anche questi, in tutta la Germania settentrionale, per tutta la durata dei lavori presso i grandi feudatari, serbavano una piena libertà personale. Solo i contadini slavi, lituani e prussiani ne rimanevano esenti. Ma la cosa non poteva durare a lungo.
Nel secolo XIV e XV le città si erano rapidamente incivilite ed arricchite. I prodotti dell’arte ed il lusso fiorivano, specie nella Germania meridionale e sul Reno. Le raffinatezze delle città patrizie non lasciavano dormire sonni tranquilli ai gentiluomini della campagna, che, oltre ad alimentarsi e a vestire rozzamente, possedevano case goffe e mal arredate. Occorreva impadronirsi delle veneri cittadine. Ma le grassazioni erano sempre state pericolose e feconde d’insuccesso; per comperare occorreva il denaro, e questo poteva solo essere creato dai contadini. Urgeva vessare i contadini, rialzare i fitti, moltiplicare le prestazioni di lavoro, aizzare i liberi contro i servi, i servi contro i liberi, e tentare ogni sforzo per tramutare la marca comune in territorio feudale.
In ciò i feudatari e l’aristocrazia furono aiutati dai giuristi romani, che, con la forzata applicazione delle norme di diritto romano ai rapporti economici tedeschi, per lo più malcompresi, generarono un’enorme confusione, ma nella quale era pur tuttavia agevole intendere come il feudatario aveva sempre da guadagnare ed il contadino sempre da perdere.
Il clero si aiutò in una maniera ancor più semplice, falsificò i documenti opportuni, decimando i diritti dei contadini e moltiplicandone i doveri. Ma contro queste truffe di feudatari, di aristocratici e di preti, i contadini, verso la fine del secolo XV, insorsero in una rivolta gigantesca, che, fino al 1525, incendiò con guerre incessanti la Svezia, la Baviera, la Francia, l’Alsazia, il Palatinato, il territorio del Reno e la Turingia. I contadini soccombettero dopo battaglie disperate, e, da quel tempo, ha principio il nuovo servaggio generale dei contadini tedeschi.
Nelle contrade in cui la lotta imperversava, tutti i sopravvissuti diritti dei contadini furono calpestati senza pudore, i loro possessi comuni tramutati in feudi, essi stessi in servi della gleba; ne, in compenso della loro remissività, i contadini dell’alta Germania, furono per lunghi anni risparmiati alla schiavitù generale. Il servaggio dei contadini fu quindi introdotto nella Prussia orientale, nella Pomerania, nel Bandenburgo, nella Slesia, sin dalla metà del secolo XVI; nello Schleswig-Holstein, sin dalla fine dello stesso secolo, e fu, in scala sempre più vasta, imposto a tutti i contadini.
Questa nuova violenza ebbe anche un motivo economico.
Le lotte dell’età della Riforma avevano accresciuto la potenza dei soli principi tedeschi. Era finita per le illustri ruberie aristocratiche. Se quindi i feudatari non volevano rimanere da meno, non potevano non spillare nuove entrate dai propri possessi, e l’unica via, dopo l’esempio dei principi, e specie del clero, era appunto quella di amministrare per proprio conto una porzione di questo possesso medesimo. Ciò che finora era stata un’eccezione, adesso diveniva una necessità. Ma il territorio era quasi da per tutto dato in fitto ai contadini. Occorreva un provvedimento; e, a tale uopo, i conduttori liberi o sudditi furono tramutati in veri e propri servi della gleba, e i graziosi signori ottennero piena libertà di azione.
Parte dei contadini furono o scacciati o degradati a miseri possessori di capanne o di qualche orticello; le loro masserie distrutte e tramutate in grandi ville signorili, coltivate da nuovi contadini e dagli antichi, obbligati, a prestazioni servili. E non solo fu scacciato così gran numero di contadini, ma gli oneri dei rimasti crebbero sempre più di numero e di gravezza.
Il capitalismo si annunciava al mondo come era della grande cultura basata sulla servitù della gleba.
Questa trasformazione fu da principio lenta, ma sopravvenne la guerra dei trent’anni.
Per un’intera generazione, la Germania fu percorsa in lungo e in largo dalle soldatesche più indisciplinate che conosca la storia. Da per tutto estorsioni, saccheggi, incendi, violenze, uccisioni.
I contadini soffersero specie in quelle contrade dove, senza contare i grandi eserciti, gli insorti o piuttosto i soldati di ventura operarono di moto proprio e per proprio conto. La desolazione e la depopolazione furono senza limiti; e, al ritorno della tranquillità, nella Germania, derelitta, scomposta, insanguinata, i più miseri apparvero i contadini.
La grande aristocrazia terriera era assurta ad unica ed universale dominatrice della regione. I principi, che ne avevano annullato i diritti nelle adunanze degli Stati provinciali, le lasciarono pieni poteri contro i contadini. La guerra ne aveva infranto l’estrema resistenza, e l’aristocrazia poteva ora regolare tutti i rapporti terrieri nella maniera più acconcia al ristabilimento delle sue ruinate finanze. Non solo le superstiti masserie furono in breve aggregate alle ville signorili, ma I piccoli poderi adiacenti al latifondo, vennero ora per la prima volta assorbiti da quest’ultimo.
Quanto più grande fu il possesso feudale, tanto più gravosi furono naturalmente gli oneri dei contadini. Tornò il tempo delle prestazioni sconfinate; al grazioso signore fu lecito imperare sui contadini, sulle loro famiglie, sui loro animali da lavoro, così come gli talentava e per tutto quel tempo che gli sarebbe talentato. La servitù della gleba divenne ora universale; un contadino libero divenne raro come un corvo bianco. E, affinché il grazioso signore fosse al caso di soffocare in sul nascere le più lievi, avverse resistenze, egli fu rivestito dal principe della facoltà di giudicare, cioè a dire, fu nominato giudice universale per tutte le minime mancanze e controversie dei contadini, si svolgessero magari tra lui e questi ultimi, assurgendo così ad arbitro inappellabile in causa propria!
Da quel tempo il bastone e la sferza fecero da supremi moderatori. In tutta la Germania, il contadino tedesco precipitò nel più profondo degli avvilimenti, ridotto a tale impotenza da dover rinunziare ad ogni difesa personale, da dovere attendere ogni salvezza dal di fuori.
E così avvenne.
Lo scoppio della Rivoluzione francese fece brillare anche per la Germania e per i contadini tedeschi l’aurora di un avvenire migliore. Gli eserciti della Rivoluzione avevano appena conquistato la riva sinistra del Reno, che, insieme con il feudalismo, spariva colà — come al tocco di bacchetta magica — tutta l’anticaglia delle prestazioni personali, dei canoni, dei presenti di ogni genere.
Il contadino della riva sinistra del Reno divenne esclusivo signore del proprio possesso e tale rimase appunto in quel «Codice civile» napoleonico, già schizzato dalla grande Rivoluzione; un Codice che rispondeva alla nuova posizione dei contadini, e che questi avevano agio non solo di conoscere, ma di portare comodamente in tasca.
Se non che il contadino sulla riva destra del Reno dove attendere più a lungo; e se in Prussia, alcuni tra i più infami diritti feudali decaddero solo dopo la ben meritata disfatta di Jena, e, se solo allora il così detto riscatto dalle prestazioni dei contadini fu potuto legalmente attuare, esso rimase in massima parte e per gran tempo, lettera morta.
Negli altri Stati non si arrivò neanche a tanto. Occorreva che una seconda rivoluzione francese fosse scoppiata al 1830, affinché, anche nel Baden e altrove, la Francia ultimasse il riscatto già compiuto nelle provincie limitrofe. E, quando la terza rivoluzione del 1848, commosse anche la Germania, codesto riscatto, in Prussia, non era compiuto a in Baviera neanche iniziato. Ora tutto fu conseguito rapidamente; il lavoro servile dei contadini, anche questa volta ribelli, aveva perduto ogni valore.
Ma che riscatto era mai quello!
Il grazioso signore cedeva ai contadini una somma di denaro o un dato pezzo di terra, riconoscendola come loro proprietà libera, esente di oneri, mentre tutte le sue terre non erano che possessi rapiti ai contadini. E ciò non bastava.
Gli impiegati, cui dell’accomodamento era stato conferito l’incarico, tennero le parti del grazioso signore, presso cui abitavano e scialacquavano, e, contro la lettera della legge, si accordavano per ingannare mostruosamente i contadini! Così, finalmente, in grazia di tre rivoluzioni francesi e di una tedesca, noi siamo venuti a riavere di bel nuovo dei contadini liberi.
Ma quanto il libero contadino odierno è lontano dal libero socio dell’antica marca! Il suo possesso è per lo più piccolissimo, e l’antica marca ridotta a pochi, piccoli e tristi boschi demaniali. Tutto senza use della marca; quindi senza possibilità di allevare del bestiame, senza concime, senza alcun metodo razionale di cultura, ma con eccessiva pratica dell’esattore delle imposte e dell’esecutore giudiziario, l’uno e l’altro affatto sconosciuti agli antichi soci marchigiani, al pari dello strozzinaggio del fisco, sotto le cui unghie cadono l’uno dopo l’altro i beni dei nostri contadini. E ciò che è il meglio, questi odierni liberi contadini dai beni e dalle iniziative eccessivamente taglieggiati e compressi sono, in Germania, dove tutto avviene in ritardo, nati in un tempo, in cui non solo l’agronomia scientifica, ma anche le macchine agricole, di recente scoperte, fanno ogni dì più, della piccola cultura, un sistema invecchiato e incapace di vita.
Come il filatoio meccanico e la filanda avevano annullati l’importanza del filatoio e del telaio a mano, così questi mezzi di produzione agricola, sostituiscono senz’altro alla piccola la grande proprietà, dato il caso che a questa sia lecito di sussistere. Minaccia invero l’odierna agricoltura europea la possente rivale della produzione granifera delle Americhe. Contro quel terreno, fatto coltivabile dalla natura medesima, concimato per lungo volgere di anni, e che si apparecchia a rinvilire enormemente di prezzo, non possono in guisa alcuna lottare i contadini ed i grandi possidenti europei, gli uni e gli altri sprofondati nei debiti.
Tutta la nostra produzione agricola è quindi destinata a soccombere dinanzi alla concorrenza americana, e sopravvivrà solo a patto di essere socializzata e amministrata da tutta la società.
Tali sono le speranze degli strati più umili dei nostri agricoltori. E il ristabilimento di una classe, magari stremata, di liberi contadini è valso almeno a rimetterli in condizione di potere, con l’ausilio dei loro naturali alleati, gli operai delle industrie, riscattare sé medesimi, tostoché sarà loro chiaro ciò che, nel comune interesse, debbono desiderare.1
Note
*1. Da non confondere con quelli Bismarck-Leonhardtiani di egual titolo, nei quali scabini e giuristi rendono insieme giustizia; mentre negli antichi tribunali degli scabini non esistevano giuristi, il presidente o il giudice non aveva voto, e soli a giudicare erano gli scabini. [Nota di Engels]↩
1. L’edizione tedesca della sola appendice del 1883 aggiunge: “Aber wie? – Durch eine Wiedergeburt der Mark, aber nicht in ihrer alten, überlebten, sondern in einer verjüngten Gestalt; durch eine solche Erneuerung der Bodengemeinschaft, daß diese den kleinbäuerlichen Genossen nicht nur alle Vorteile des Großbetriebs und der Anwendung der landwirtschaftlichen Maschinerie zuwendet, sondern ihnen auch die Mittel bietet, neben dem Ackerbau Großindustrie mit Dampf- oder Wasserkraft zu betreiben, und zwar für Rechnung nicht von Kapitalisten, sondern für Rechnung der Genossenschaft. Ackerbau im großen und Benutzung der landwirtschaftlichen Maschinerie – das heißt mit anderen Worten: Überflüssigmachung der landwirtschaftlichen Arbeit des größten Teils der Kleinbauern, die jetzt ihre Felder selbst bestellen. Damit diese vom Feldbau verdrängten Leute nicht arbeitslos bleiben oder in die Städte gedrängt werden, dazu gehört industrielle Beschäftigung auf dem Lande selbst, und diese kann nur vorteilhaft für sie betrieben werden im großen, mit Dampf- oder Wasserkraft. Wie das einrichten? Darüber denkt einmal nach, deutsche Bauern. Wer euch dabei allein beistehen kann, das sind – die Sozialdemokraten.”↩