martedì, Settembre 26

COSA LEGGERE SOTTO L’OMBRELLONE?…

di Redazione

Carissime/i compagne e compagni, come redazione ci siamo domandati cosa consigliare ai nostri militanti e lettori come svago in questo caldo periodo estivo? E abbiamo deciso di consigliare delle buone letture, anche perché sfogliare delle pagine di un libro non richiede uno sforzo eccessivo e quindi non si suda, ma aiuta a riposizionare nel giardino della memoria le cose che abbiamo dimenticato. Quindi per chi è comunista non c’è nulla di più fresco della lettura di quel capolavoro della saggistica e della letteratura che ha cambiato le sorti degli sfruttati di tutto il mondo come il Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels. Siamo certi che questa rilettura estiva permetterà a tutti noi di trovare la chiave per soluzioni a quei problemi che la “sinistra” odierna si trascina da oltre trent’anni. Forse perché abbiamo smesso di usare le categorie che i due scienziati sociali c’hanno donato per cambiare il mondo.

Come redazione ci impegnamo, sino alla fine di settembre, a pubblicare ogni settimana un testo dei due scienziati.

Buona lettura

MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA

Karl Marx – Friedrich Engels (1848)

Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro.

Qual è il partito di opposizione, che non sia stato tacciato di comunista dai suoi avversari che si trovano al potere? E qual è il partito di opposizione che, a sua volta, non abbia ritorto l’infamante accusa di comunista contro gli elementi più avanzati dell’opposizione o contro i suoi avversari reazionari?

Da questo fatto si ricavano due conclusioni. Il comunismo è ormai riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee.

E’ ormai tempo che i comunisti espongano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze, e che alle fiabe dello spettro del comunismo contrappongano un manifesto del partito.

A tal fine, comunisti delle più varie nazionalità si sono riuniti a Londra e hanno redatto il seguente manifesto, che viene pubblicato in lingua inglese, francese, tedesca, italiana, fiamminga e danese.

Capitolo I

BORGHESI E PROLETARI

La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi.

Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.

Nelle prime epoche della storia troviamo quasi dappertutto una completa divisione della società in varie caste, una multiforme gradazione delle posizioni sociali. Nell’antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, maestri d’arte, garzoni, servi della gleba, e per di più in quasi ciascuna di queste classi altre speciali gradazioni.

La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha eliminato i contrasti fra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo delle antiche.

La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato.

Dai servi della gleba del medioevo uscirono i borghigiani delle prime città; da questi borghigiani ebberosviluppo i primi elementi della borghesia.

La scoperta dell’America e la circumnavigazione dell’Africa offrirono un nuovo terreno alla nascente borghesia. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, lo scambio con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in generale, diedero un impulso prima di allora sconosciuto al commercio, alla navigazione, all’industria, e in pari tempo favorirono il rapido sviluppo dell’elemento rivoluzionario in seno alla società feudale che si andava sfasciando.

L’organizzazione feudale o corporativa dell’industria da quel momento non bastò più ai bisogni, che andavano crescendo col crescere dei nuovi mercati. Subentrò la manifattura.

I maestri di bottega vennero soppiantati dal medio ceto industriale; la divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nelle stesse singole officine.

Ma i mercati continuavano a crescere, e continuavano a crescere i bisogni. Anche la manifattura non bastava più. Ed ecco il vapore e le macchine rivoluzionare la produzione industriale. Alla manifattura subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale succedettero gli industriali milionari, i capi di interi eserciti industriali, i moderni borghesi.

La grande industria ha creato quel mercato mondiale che la scoperta dell’America aveva preparato. Il mercato mondiale ha dato un immenso sviluppo al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni via terra. Questo sviluppo, a sua volta, ha reagito sull’espansione dell’industria; e in quella stessa misura in cui si sono andate estendendo l’industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si è sviluppata, ha aumentato i suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi, che erano un’eredità del medioevo.

Vediamo dunque come la stessa borghesia moderna sia il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una serie di sconvolgimenti nei modi della produzione e del traffico. Ognuno di questi stadi nello sviluppo della borghesia fu accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, associazioni armate e autonome nel Comune, qui repubblica municipale indipendente, là terzo stato tributario della monarchia, poi, al tempo della manifattura, contrappeso alla nobiltà nella monarchia a poteri limitati o in quella assoluta, principale fondamento, in generale, delle grandi monarchie, col costituirsi dalla grande industria e dal mercato mondiale, la borghesia si è impadronita finalmente della potestà politica esclusiva nel moderno Stato rappresentativo. Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese.

La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria.

Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato “pagamento in contanti”. Essa ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle innumerevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la SOLA libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido.

La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che prima erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati.

La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice rapporto di soldi.

La borghesia ha messo in chiaro come la brutale manifestazione di forza, che i reazionari tanto ammirano nel medioevo, avesse il suo appropriato completamento nella più infingarda poltroneria. Essa per prima ha mostrato che cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate.

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.

Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa si deve ficcare, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni.

Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili – industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, un’universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale, così anche in quella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. La unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale.

Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.

La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città.

Ha creato città enormi, ha grandemente accresciuto la popolazione urbana in confronto a quella rurale, e così ha strappato una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rustica. Come ha assoggettato la campagna alla città, così ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbari e semibarbari, i popoli contadini dai popoli borghesi, l’Oriente dall’Occidente.

La borghesia sopprime sempre più il frazionamento dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Essa ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani. Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, quasiappena collegate tra loro da vincoli federali, province con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono state strette in UNA SOLA nazione, con UN SOLO governo, UNA SOLA legge, UN SOLO interesse nazionale di classe, UN SOLO confine doganale.

Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto tutte insieme le generazioni passate. Soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, fiumi resi navigabili, intere popolazioni sorte quasi per incanto dal suolo – quale dei secoli passati avrebbe mai presentito che tali forze produttive stessero sopite in grembo al lavoro sociale?

Abbiamo però visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si eresse la borghesia, furono generati in seno alla società feudale. A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasformavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate.

Subentrò ad esse la libera concorrenza con la costituzione politica e sociale ad essa adatta, col dominio politico ed economico della classe borghese.

Sotto i nostri occhi si sta compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomigliano allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate. Da qualche decina di anni la storia dell’industria e del commercio non è che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze produttive che erano già state create. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa come un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della società borghese e dei rapporti di proprietà borghese; al contrario, esse sono diventate troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta la società borghese, minacciano l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte. Con quale mezzo riesce la borghesia a superare la crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque?

Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi.

Le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la borghesia stessa.

Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte; essa ha anche creato gli uomini che useranno quelle armi – i moderni operai, I PROLETARI.

Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe degli operai moderni, i quali vivono solo fino a tanto che trovano lavoro, e trovano lavoro soltanto fino a che il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo di commercio, e perciò sono egualmente esposti a tutte le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.

Il lavoro dei proletari, con l’estendersi dell’uso delle macchine e con la divisione del lavoro, ha perso ogni carattere di indipendenza e quindi ogni attrattiva per l’operaio. Questi diventa un semplice accessorio a cui non si chiede che un’operazione estremamente semplice, monotona, facilissima da imparare. Le spese che l’operaio procura si limitano perciò quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza necessari per il suo mantenimento e per la propagazione della sua specie. Ma il prezzo di una merce, e quindi anche il prezzo del lavoro, è uguale al suo costo di produzione. Così, a misura che il lavoro si fa più ripugnante, più discende il salario. Più ancora: a misura che crescono l’uso delle macchine e la divisione del lavoro, cresce anche la quantità del lavoro, sia per l’aumento delle ore di lavoro, sia per l’aumento del lavoro richiesto in una data unità di tempo, per l’accresciuta celerità delle macchine, eccetera.

L’industria moderna ha trasformato la piccola officina dell’artigianato patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. Come soldati semplici dell’industria essi vengono sottoposti alla sorveglianza di tutta una gerarchia di sottufficiali e di ufficiali. Essi non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma vengono, ogni giorno e ogni ora, asserviti dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica. Un simile dispotismo è tanto più meschino, odioso, esasperante, quanto più apertamente esso proclama di non avere altro scopo che il guadagno.

Quanto meno il lavoro manuale esige abilità e forza, vale a dire quanto più l’industria moderna si sviluppa, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne e dei fanciulli. Le differenze di sesso e di età non hanno più nessun valore sociale per la classe operaia. Non ci sono più che strumenti di lavoro, il cui costo varia secondo l’età e il sesso.

Non appena l’operaio ha finito di essere sfruttato dal fabbricante e ne ha ricevuto il salario in contanti, ecco piombare su di lui gli altri membri della borghesia, il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno, e così via.

Quelli che furono sinora i piccoli ceti medi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all’esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza con i capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto ai nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.

Il proletariato attraversa diversi gradi di evoluzione. La sua lotta contro la borghesia incomincia con la sua esistenza.

Dapprima lottano i singoli operai ad uno a uno, poi gli operai di una fabbrica, quindi quelli di una data categoria in un dato luogo contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente. Essi non rivolgono i loro attacchi soltanto contro i rapporti di produzione, ma li rivolgono contro gli stessi strumenti della produzione; essi distruggono le merci straniere che fanno loro concorrenza, fanno a pezzi le macchine, incendiano le fabbriche, tentano di riacquistare la tramontata posizione dell’operaio del medioevo.

In questo stadio gli operai formano una massa dispersa per tutto il paese e sparpagliata dalla concorrenza. Il loro raggrupparsi in masse non è ancora la conseguenza della loro propria unione, ma è dovuta all’unione della borghesia, che per raggiungere i suoi propri fini politici deve mettere in moto tutto il proletariato ed è ancora in grado di farlo. In tale stadio i proletari non combattono dunque i loro nemici, ma i nemici dei loro nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Tutto il movimento storico è così concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria così ottenuta è una vittoria della borghesia.

Ma con lo sviluppo dell’industria il proletariato non cresce soltanto di numero; esso si addensa in grandi masse, la sua forza va crescendo, e con la forza la coscienza di essa. Gli interessi, le condizioni di esistenza all’interno del proletariato si livellano sempre più, perché la macchina cancella sempre più le differenze del lavoro e quasi dappertutto riduce il salario a un eguale basso livello. La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l’incessante e sempre più rapido perfezionamento delle macchine rende sempre più precarie le loro condizioni di esistenza; i conflitti fra singoli operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo il carattere di conflitti fra due classi. E’ così che gli operai incominciano a formare coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere il loro salario. Essi fondano persino associazioni permanenti per approvvigionarsi per le sollevazioni eventuali. Qua e là la lotta diventa sommossa.

Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero.

Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma la unione sempre più estesa degli operai. Essa è agevolata dai crescenti mezzi di comunicazione che sono creati dalla grande industria e che collegano tra di loro operai di località diverse.

Basta questo semplice collegamento per concentrare le molte lotte locali, aventi dappertutto uguale carattere, in una lotta nazionale, in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è lotta politica. E l’unione per raggiungere la quale ai borghigiani del medioevo, con le loro strade vicinali, occorsero dei secoli, oggi, con le ferrovie, viene realizzata dai proletari in pochi anni.

Questa organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, viene ad ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro stessi. Ma essa risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente.

Approfittando delle scissioni della borghesia, la costringe al riconoscimento legale di singoli interessi degli operai. Così fu per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra.

I conflitti in seno alla vecchia società in generale favoriscono in più modi il processo di sviluppo del proletariato. La borghesia è di continuo in lotta: dapprima contro l’aristocrazia, poi contro quelle parti della borghesia stessa i cui interessi sono in contrasto col progresso dell’industria; sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a chiederne l’aiuto, trascinandolo così nel moto politico. Essa stessa, dunque, dà al proletariato gli elementi della propria educazione, gli dà cioè le armi contro se stessa.

Accade inoltre, come abbiamo già visto, che per il progresso dell’industria intere parti costitutive della classe dominante vengono precipitate nella condizione del proletariato o sono per lo meno minacciate nelle loro condizioni di esistenza. Anch’esse recano al proletariato una massa di elementi della loro educazione.

Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe che ha l’avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme.

Di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono con la grande industria, mentre il proletariato ne è il prodotto più genuino.

I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina la loro esistenza di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancor più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all’indietro la ruota della storia. Se sono rivoluzionari, lo sono in vista del loro imminente passaggio al proletariato; cioè non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, abbandonano il proprio modo di vedere per adottare quello del proletariato. Quanto al sottoproletariato, che rappresenta la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società, esso viene qua e là gettato nel movimento da una rivoluzione proletaria; ma per le sue stesse condizioni di vita esso sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettere al servizio di mene reazionarie.

Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già distrutte dalle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletariato è senza proprietà; le sue relazioni con la moglie e con i figli non hanno più nulla di comune con i rapporti familiari borghesi; il moderno lavoro industriale, il moderno soggiogamento al capitale, eguale in Inghilterra come in Francia, in America come in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Le leggi, la morale, la religione, sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.

Tutte le classi che finora si impossessarono del potere cercarono di assicurarsi la posizione raggiunta assoggettando tutta la società alle condizioni del loro guadagno. I proletari, invece, possono impossessarsi delle forze produttive sociali soltanto abolendo il loro modo di appropriazione attuale e con esso l’intero attuale modo di appropriazione. I proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare; essi hanno soltanto da distruggere tutte le sicurezze private e le guarentigie private finora esistite.

Tutti i movimenti avvenuti finora furono movimenti di minoranza o nell’interesse di minoranze.

Il movimento proletario è il movimento indipendente dell’enorme maggioranza nell’interesse dell’enorme maggioranza. Il proletariato che è lo strato più basso della società attuale, non può sollevarsi, non può innalzarsi, senza che tutta la sovrastruttura degli strati che costituiscono la società ufficiale vada in frantumi. Sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia.

Tratteggiando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno occulta entro la società attuale fino al momento in cui essa esplode in una rivoluzione aperta, e col rovesciamento violento della borghesia il proletariato stabilisce il suo dominio.

Ogni società finora esistita ha poggiato, come abbiamo già visto, sul contrasto tra le classi degli oppressori e degli oppressi. Ma per poter opprimere una classe, bisogna che le siano assicurate condizioni entro le quali essa possa almeno vivere la sua misera vita di schiavo. Il servo della gleba ha potuto, continuando a esser tale, elevarsi a membro del comune, così come il borghigiano, pur sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto diventare un borghese. L’operaio moderno, al contrario, invece di elevarsi col progresso dell’industria, cade sempre più in basso, al di sotto delle condizioni della sua propria classe.

L’operaio diventa il povero e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e dellaricchezza. Appare da tutto ciò manifesto che la borghesia è incapace di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società, come legge regolatrice, le condizioni di esistenza della sua classe. Essa è incapace di dominare perché è incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita. La società non può più vivere sotto il suo dominio, cioè l’esistenza della borghesia non è più compatibile con la società.

Condizione essenziale dell’esistenza e del dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e l’aumento del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai fra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è l’agente involontario e passivo, sostituisce all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante l’associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono egualmente inevitabili.

Capitolo II

PROLETARI E COMUNISTI

Che relazione passa tra i comunisti e i proletari in generale? I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.

Essi non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme.

Non erigono princìpi particolari, sui quali vogliano modellare il movimento proletario.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo.

In pratica, dunque, i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato per il fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario.

Lo scopo immediato dei comunisti è quello stesso degli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato.

Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto sopra idee, sopra princìpi che siano stati inventati o scoperti da questo o quel rinnovatore del mondo.

Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. L’abolizione dei rapporti di proprietà che si sono avuti finora non è cosa che caratterizzi propriamente il comunismo.

Tutti i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetti a un continuo mutamento storico, a una continua trasformazione storica.

La Rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale in favore della proprietà borghese.

Ciò che distingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese.

Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione di quella produzione e appropriazione dei prodotti, che poggia sugli antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni ad opera degli altri.

In questo senso i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata.

E’ stato mosso rimprovero a noi comunisti di voler abolire la proprietà acquistata col lavoro personale, frutto del lavoro di ciascuno; quella proprietà che sarebbe il fondamento di ogni libertà, di ogni attività e di ogni indipendenza personali.

Proprietà acquistata, guadagnata, frutto del proprio lavoro!

Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese o del piccolo agricoltore, che precedette la proprietà borghese? Noi non abbiamo bisogno di abolirla; l’ha già abolita e la abolisce quotidianamente lo sviluppo dell’industria.

Oppure parlate della moderna proprietà borghese privata?

Ma forse che il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea a quest’ultima una proprietà? In nessun modo. Esso crea il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può aumentare se non a condizione di generare nuovo lavoro salariato per nuovamente sfruttarlo. La proprietà nella sua forma odierna è fondata sull’antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo.

Essere capitalista non vuol dire soltanto occupare nella produzione una posizione puramente personale, ma una posizione sociale. Il capitale è un prodotto comune e non può essere messo in moto se non dall’attività comune di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, soltanto dall’attività comune di tutti i membri della società.

Il capitale, dunque, non è una potenza personale; esso è una potenza sociale.

Se dunque il capitale viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, ciò non vuol dire che si trasformi una proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. Esso perde il suo carattere di classe.

Veniamo al lavoro salariato.

Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di sussistenza necessari a mantenere in vita l’operaio in quanto operaio. Quello dunque che l’operaio salariato si appropria con la sua attività, gli basta soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo affatto abolire questaappropriazione personale dei prodotti del lavoro necessari per la riproduzione della vita immediata, appropriazione la quale non lascia alcun profitto netto, che possa dare un potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo soltanto abolire il miserabile carattere di questa appropriazione, per cui l’operaio esiste soltanto per accrescere il capitale e vive quel tanto che è richiesto dall’interesse della classe dominante.

Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per aumentare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per rendere più largo, più ricco, più progredito il ritmo di vita degli operai.

Nella società borghese, dunque, il passato domina sul presente; nella società comunista il presente sul passato. Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l’individuo operante è dipendente e impersonale.

E la borghesia chiama l’abolizione di questo stato di cose abolizione della personalità e della libertà! E ha ragione. Perché si tratta, effettivamente, di abolire la personalità, l’indipendenza e la libertà del borghese!

Per libertà si intende, entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, il commercio libero, la libera compra e vendita.

Ma tolto il commercio, sparisce anche il libero commercio. Le frasi sul libero commercio, come tutte le altre vanterie liberalesche della nostra borghesia, hanno un senso soltanto rispetto al commercio vincolato e all’asservito cittadino del medioevo, ma non ne hanno alcuno rispetto all’abolizione comunista del commercio, dei rapporti borghesi di produzione e della borghesia stessa.

Voi inorridite all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nell’attuale vostra società la proprietà privata è abolita per nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste precisamente in quanto per quei nove decimi non esiste. Voi ci rimproverate dunque di voler abolire una proprietà che ha per condizione necessaria la mancanza di proprietà per l’enorme maggioranza della società.

In una parola, voi ci rimproverate di voler abolire la vostra proprietà. E’ vero: è questo che vogliamo.

Dall’istante in cui il lavoro non può più essere trasformato in capitale, denaro, rendita fondiaria, insomma, in una forza sociale monopolizzabile, dall’istante cioè in cui la proprietà personale non si può più mutare in proprietà borghese, da quell’istante voi dichiarate che è abolita la persona.

Voi confessate, dunque, che per persona non intendete altro che il borghese, il proprietario borghese. Ebbene, questa persona deve effettivamente essere abolita.

Il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui.

E’ stato obiettato che con l’abolizione della proprietà privata cesserebbe ogni attività, si diffonderebbe una neghittosità generale.

Se così fosse, la società borghese sarebbe da molto tempo andata in rovina per pigrizia, giacché in essa chilavora non guadagna e chi guadagna non lavora. Tutta l’abolizione sbocca in questa tautologia: che non c’è più lavoro salariato quando non c’è più capitale.

Tutte le obiezioni, che si muovono al modo comunista di appropriazione e di produzione dei prodotti materiali, sono state estese anche all’appropriazione e produzione dei prodotti intellettuali. Come per il borghese la cessazione della proprietà di classe significa cessazione della produzione stessa, così cessazione della cultura di classe è per lui lo stesso che cessazione della cultura in genere.

La cultura di cui egli deplora la perdita è per l’enorme maggioranza degli uomini il processo di trasformazione in macchina.

Ma non polemizzate con noi applicando all’abolizione della proprietà borghese le vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura, del diritto, eccetera. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, così come il vostro diritto non è che la volontà della vostra classe innalzata a legge, una volontà il cui contenuto è determinato dalle condizioni materiali di vita della vostra classe.

Questa concezione interessata, grazie alla quale voi trasformate i vostri rapporti di produzione e di proprietà, da rapporti storici come essi sono che appaiono e scompaiono nel corso della produzione, in leggi eterne della natura e della ragione, questa concezione voi l’avete in comune con tutte le classi dominanti scomparse. Ciò che voi comprendete quando si tratta della proprietà antica, ciò che voi comprendete quando si tratta della proprietà feudale, voi non potete più comprenderlo quando si tratta della proprietà borghese.

Abolizione della famiglia! Persino i più avanzati fra i radicali si scandalizzano di così ignominiosa intenzione dei comunisti.

Su che cosa si basa la famiglia odierna, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Nel suo pieno sviluppo la famiglia odierna esiste soltanto per la borghesia; ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza di famiglia dei proletari e nella prostituzione pubblica.

La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di questo suo complemento, e ambedue scompariranno con lo sparire del capitale.

Ci rimproverate voi di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei loro genitori? Noi questo delitto lo confessiamo.

Ma voi dite che sostituendo l’educazione sociale all’educazione domestica noi sopprimiamo i legami più intimi. Ma non è anche la vostra educazione determinata dalla società, dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dall’intervento più o meno diretto o indiretto della società per mezzo della scuola, eccetera? Non sono icomunisti che inventano l’influenza della società sull’educazione; essi ne cambiano soltanto il carattere; essi strappano l’educazione all’influenza della classe dominante.

Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sull’educazione, sugli intimi rapporti fra i genitori e i figli diventano tanto più nauseanti, quanto più, in conseguenza della grande industria, viene spezzato per i proletari ogni legame di famiglia, e i fanciulli vengono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro. Ma voi comunisti volete la comunanza delle donne – ci grida in coro tutta la borghesia.

Il borghese vede nella propria moglie un semplice strumento di produzione. Egli sente che gli strumenti di produzione devono essere sfruttati in comune e, naturalmente, non può fare a meno di pensare che la sorte dell’uso in comune colpirà anche le donne.

Egli non si immagina che si tratta appunto di abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione.

Del resto, nulla è più ridicolo del moralismo sgomento dei nostri borghesi per la pretesa comunanza ufficiale delle donne nel comunismo. I comunisti non hanno bisogno di introdurre la comunanza delle donne: essa è quasi sempre esistita.

I nostri borghesi, non contenti di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletari – per non parlare della prostituzione ufficiale – trovano uno dei loro principali diletti nel sedursi scambievolmente le mogli.

Il matrimonio borghese è, in realtà, la comunanza delle mogli. Tutt’al più si potrebbe rimproverare ai comunisti di voler sostituire alla comunanza delle donne, ipocritamente celata, una comunanza ufficiale, palese. Si comprende del resto benissimo che con l’abolizione degli attuali rapporti di produzione scompare anche la comunanza delle donne che ne risulta, vale a dire la prostituzione ufficiale e non ufficiale.

Si rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità.

Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia.

L’isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa rispondenti.

Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più.

L’azione unita almeno nei paesi civili è una delle prime condizioni della sua emancipazione.

A misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo per opera di un altro, viene abolito lo sfruttamento di una nazione per opera di un’altra.

Con lo sparire dell’antagonismo fra le classi nell’interno delle nazioni scompare l’ostilità fra le nazioni stesse. Le accuse che vengono mosse contro il comunismo partendo da considerazioni religiose, filosofiche e ideologiche in generale, non meritano di essere più ampiamente esaminate.

Ci vuole forse una profonda perspicacia per comprendere che, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti e la loro esistenza sociale, cambiano anche le loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, in una parola, cambia anche la loro coscienza?

Che cos’altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione spirituale si trasforma insieme con quella materiale?

Le idee dominanti di un’epoca furono sempre soltanto le idee della classe dominante.

Si parla di idee che rivoluzionano tutta una società; con ciò si esprime soltanto il fatto che in seno alla vecchia società si sono formati gli elementi di una società nuova, che con la dissoluzione dei vecchi rapporti di esistenza procede di pari passo il dissolvimento delle vecchie idee.

Quando il mondo antico stava per tramontare, le vecchie religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo diciottesimo le idee cristiane soggiacquero alle idee dell’illuminismo, la società feudale stava combattendo la sua lotta suprema con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di religione non furono altro che l’espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza.

“Ma – si dirà – non c’è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche, eccetera, si sono modificate nel corso dell’evoluzione storica; la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto però si mantennero sempre durante tutti questi mutamenti. Ci sono, inoltre, verità eterne, come la libertà, la giustizia, eccetera, che sono comuni a tutte le situazioni sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, invece di dar loro una forma nuova e con ciò contraddice a tutta l’evoluzione storica verificatasi finora”.

A che cosa si riduce questa accusa? La storia di tutta la società si è svolta finora attraverso antagonismi di classe, che nelle diverse epoche assunsero forme diverse.

Ma qualunque forma abbiano assunto tali antagonismi, lo sfruttamento di una parte della società per opera di un’altra è un fatto comune a tutti i secoli passati. Nessuna meraviglia, quindi, che la coscienza sociale di tutti i secoli, malgrado tutte le varietà e diversità, si muova in certe forme comuni, in forme di coscienza che si dissolvono completamente soltanto con la completa sparizione dell’antagonismo delle classi.

La rivoluzione comunista è la più radicale rottura coi rapporti di proprietà tradizionali; nessuna meraviglia, quindi, se nel corso del suo sviluppo avviene la rottura più radicale con le idee tradizionali.

Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo.

Abbiamo già visto sopra come il primo passo nella rivoluzione operaia sia l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia. Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità, la massa delle forze produttive.

Naturalmente sulle prime tutto ciò non può accadere, se non per via di interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, vale a dire con misure che appaiono economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpassano se stesse e spingono in avanti, e sono inevitabili come mezzi per rivoluzionare l’intero modo di produzione.

Com’è naturale, queste misure saranno diverse a seconda dei diversi paesi.

Per i paesi più progrediti, però potranno quasi generalmente essere applicate le seguenti:

1. Espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.

2. Imposta fortemente progressiva.

3. Abolizione del diritto di eredità.

4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5. Accentramento del credito nelle mani dello Stato per mezzo di una banca nazionale con capitale di Stato o con monopolio esclusivo.

6. Accentramento di tutti i mezzi di trasporto nelle mani dello Stato.

7. Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune.

8. Uguale obbligo di lavoro per tutti, istituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura.

9. Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e di quello dell’industria, misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo tra città e campagna.

10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Unificazione dell’educazione e della produzione materiale, eccetera.

Quando, nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe.

Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e con i suoi antagonismi di classe subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti.

Capitolo III

LETTERATURA SOCIALISTA E COMUNISTA

1. Il socialismo reazionario.

a) Il socialismo feudale.

Per la sua condizione storica, l’aristocrazia francese e inglese era chiamata a scrivere libelli contro la moderna società borghese. Nella rivoluzione francese del luglio 1830 e nel movimento per la riforma elettorale inglese l’aristocrazia era, ancora una volta, soggiaciuta all’odiata classe dei nuovi venuti.

Non era più il caso di parlare di una seria lotta politica. Le rimaneva soltanto la lotta letteraria. Ma anche nel campo della letteratura il vecchio frasario del periodo della Restaurazione era diventato impossibile. Per crearsi delle simpatie, l’aristocrazia doveva fingere di perdere di vista i propri interessi e formulare il suo atto d’accusa contro la borghesia unicamente nell’interesse della classe operaia sfruttata.

Si procurava così la soddisfazione di intonare canzoni ingiuriose contro i suoi nuovi padroni, e di sussurrare loro nell’orecchio profezie di più o meno sinistro contenuto.

In questo modo nacque il socialismo feudale, mezzo geremiade e mezzo pasquinata, per metà eco del passato,per metà minaccia del futuro, che talora colpisce al cuore la borghesia per giudizi amari e spiritosamente sarcastici, ma che è sempre di effetto comico per la sua totale incapacità di capire l’andamento della storia moderna.

Per tirarsi dietro il popolo, questi aristocratici sventolavano a mo’ di bandiera la bisaccia da mendicante del proletariato. Ma ogni qualvolta il popolo li seguì, vide sulle loro parti posteriori impressi gli antichi blasoni feudali e si sbandò scoppiando in rumorose e irriverenti risate.

Una parte dei legittimisti francesi e la Giovane Inghilterra offrirono questo allegro spettacolo.

Quando i feudali dimostrano che il loro modo di sfruttamento era diverso nella forma dallo sfruttamento borghese, dimenticano soltanto che essi esercitano il loro sfruttamento in circostanze e condizioni affattodiverse e ora superate. Quando dimostrano che sotto il loro dominio non esisteva il proletariato moderno, dimenticano semplicemente che appunto la moderna borghesia è stato un necessario rampollo del loro ordinamento sociale.

Del resto essi nascondono così poco il carattere reazionario della loro critica, che la loro principale accusa contro la borghesia è precisamente quella che sotto il suo regime si sviluppa una classe che manderà per aria tutto quanto il vecchio ordinamento sociale.

Essi rimproverano alla borghesia non tanto di produrre un proletariato in generale, quanto di produrre unproletariato rivoluzionario.

Perciò nella prassi politica essi partecipano a tutte le misure di violenza contro la classe operaia, e nella vita di tutti i giorni si adattano, malgrado il loro gonfio frasario, a cogliere le mele d’oro e a barattare fedeltà, amore e onore con lana, barbabietola e acquavite.

Come il prete andò sempre d’accordo con i feudali, così il socialismo clericale va d’accordo col socialismo feudale.

Nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una vernice socialista. Il cristianesimo non ha forse inveito anche contro la proprietà privata, contro il matrimonio, contro lo Stato? Non ha forse predicato in loro sostituzione la beneficienza e la mendicità, il celibato e la mortificazione della carne, la vita claustrale e la Chiesa? Il socialismo sacro è soltanto l’acqua santa con la quale il prete benedice il dispetto degli aristocratici.

b) Il socialismo piccolo-borghese.

L’aristocrazia feudale non è la sola classe che sia stata rovesciata dalla borghesia, che abbia visto le proprie condizioni di vita paralizzarsi e morire nella moderna società borghese. I borghigiani medievali e il piccolo ceto rustico furono i precursori della borghesia moderna. Nei paesi in cui il commercio e l’industria sono meno sviluppati, questa classe vegeta ancora accanto alla borghesia che si sta sviluppando.

Nei paesi dove la civiltà moderna si è sviluppata, si è formata una nuova piccola borghesia, che oscilla tra il proletariato e la borghesia e si viene sempre ricostituendo come parte integrante della società borghese, i cui componenti però, continuamente ricacciati nel proletariato per effetto della concorrenza, per lo sviluppo stesso della grande industria, vedono avvicinarsi un momento in cui spariranno completamente come parte autonoma della società odierna e saranno sostituiti nel commercio, nella manifattura e nell’agricoltura daispettori e agenti salariati.

In paesi come la Francia, dove la classe rurale forma più di metà della popolazione, era naturale che gli scrittori, i quali scendevano in campo contro la borghesia a favore del proletariato, applicassero nella loro critica del regime borghese la scala del piccolo borghese e del piccolo possidente contadino, e che pigliassero partito per gli operai dal punto di vista della piccola borghesia. Si formò così il socialismo piccolo-borghese.

Sismondi è il capo di questa letteratura non soltanto per la Francia, ma anche per l’Inghilterra.

Questo socialismo anatomizzò molto accuratamente le contraddizioni esistenti nei moderni rapporti di produzione. Esso mise a nudo gli eufemismi ipocriti degli economisti. Esso dimostrò in modo incontestabile gli effetti deleteri dell’introduzione delle macchine e della divisione del lavoro, la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la sovrapproduzione, le crisi, la rovina inevitabile dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini, la miseria del proletariato, l’anarchia della produzione, le stridenti proporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale di sterminio fra le nazioni, il dissolversi degli antichi costumi, degli antichi rapporti di famiglia, delle antiche nazionalità.

Quanto al suo contenuto positivo, però, questo socialismo, o vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure vuole per forza imprigionare di nuovo i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà che essi hanno spezzato e che non potevano non spezzare. In ambo i casi esso è a un tempo reazionario e utopistico.

Le corporazioni nella manifattura e l’economia patriarcale nell’agricoltura, queste sono le sue ultime parole. Nella sua evoluzione ulteriore questa scuola finisce in un vile piagnisteo.

c) Il socialismo tedesco o il “vero” socialismo.

La letteratura socialista e comunista della Francia, nata sotto la pressione di una borghesia dominatrice ed espressione letteraria della lotta contro questo dominio, fu importata in Germania in un periodo in cui la borghesia aveva appena incominciato la sua lotta contro l’assolutismo feudale.

Filosofi, semifilosofi e begli spiriti tedeschi si impadronirono avidamente di questa letteratura e dimenticarono semplicemente che con gli scritti francesi non erano in pari tempo passate in Germania le condizioni della vita francese. In rapporto alle condizioni tedesche la letteratura francese perdette ogni significato pratico immediato e assunse un aspetto puramente letterario. Essa doveva apparire come un’oziosa speculazione sulla vera società, sulla realizzazione dell’essenza umana. Similmente, per i filosofi tedeschi del secolo diciottesimo le rivendicazioni della prima rivoluzione francese avevano semplicemente avuto il senso di rivendicazioni della “ragion pratica” in generale, e le affermazioni della volontà della borghesia francese rivoluzionaria avevano assunto ai loro occhi il significato di leggi del puro volere, del volere quale deve essere, del vero volere umano. Il lavoro dei letterati tedeschi consistette esclusivamente nel mettere d’accordo le nuove idee francesi con la loro vecchia coscienza filosofica o piuttosto nell’appropriarsi delle idee francesi dal loro punto di vista filosofico.

Questa appropriazione si compì nello stesso modo in cui ci si appropria in generale di una lingua straniera: traducendo.

E’ noto come i monaci scrivessero insipide storie cattoliche di santi su manoscritti contenenti le opere classiche dell’antico mondo pagano. I letterati tedeschi procedettero in senso inverso con la letteratura profana francese. Scrissero le loro assurdità filosofiche sotto all’originale francese. Per esempio, sotto la critica francese dei rapporti monetari scrissero “alienazione dell’essenza umana”, sotto alla critica francese dello Stato borghese scrissero “superamento del dominio dell’universale astratto”, eccetera.

La interpolazione di questa fraseologia filosofica agli svolgimenti del pensiero francese fu da essi battezzata “fiolosofia dell’azione”, “vero socialismo”, “dimostrazione filosofica del socialismo”, eccetera.

Così la letteratura francese socialista-comunista venne letteralmente castrata. E siccome in mano ai tedeschi essa cessò di esprimere la lotta di una classe contro un’altra, i letterati tedeschi erano convinti di aver superato la “unilateralità francese”, di aver difeso, invece di bisogni veri, il bisogno della verità, e invece degli interessi del proletariato, gli interessi dell’essere umano, dell’uomo in generale, dell’uomo che non appartiene anessuna classe, anzi che non appartiene neppure alla realtà, ma solo al cielo vaporoso della fantasia filosofica. Questo socialismo tedesco, che pigliava così solennemente sul serio i suoi goffi esercizi scolastici strombazzandoli all’uso dei saltimbanchi, perse a poco a poco la sua pedantesca innocenza.

La lotta della borghesia tedesca, massimamente prussiana, contro i feudali e la monarchia assoluta, in una parola, il movimento liberale, si fece più serio.

Al “vero” socialismo si offrì così l’auspicata occasione di contrapporre al movimento politico le rivendicazioni socialiste, di lanciare i tradizionali anatemi contro il liberalismo, contro lo Stato rappresentativo, contro la concorrenza borghese, la libertà di stampa borghese, il diritto borghese, la libertà e la eguaglianza borghesi, e di predicare alle masse come esse non avessero niente da guadagnare da questo movimento borghese, ma piuttosto tutto da perdere.

Molto a proposito il socialismo tedesco dimenticò che la critica francese, di cui esso non era se non una ecomeschina, presupponeva la moderna società borghese con le corrispondenti condizioni materiali di vita e lacorrispondente costituzione politica, tutte premesse che in Germania bisognava ancora conquistare.

Esso servì ai governi tedeschi assoluti, col loro seguito di preti, maestri di scuola, gentiluomini di campagna e burocrati, come un utile spauracchio contro la borghesia che si levava minacciosa. Esso fu il complemento dolciastro delle amare sferzate e fucilate con cui quei governi accoglievano le sommosse degli operai tedeschi.

Se in tal modo il “vero” socialismo divenne un’arma in mano dei governi contro la borghesia tedesca, esso rappresentava anche immediatamente un interesse reazionario, l’interesse della piccola borghesia tedesca. In Germania la piccola borghesia, trasmessa dal secolo sedicesimo e sempre da allora in poi rinascente in formediverse, costituisce la vera base sociale delle attuali condizioni del paese.

La sua conservazione significa conservazione delle precedenti condizioni della Germania. Questa piccola borghesia teme che il dominio industriale e politico della borghesia le arrechi una sicura rovina, da un lato in conseguenza del concentramento del capitale, dall’altro lato in conseguenza del sorgere di un proletariato rivoluzionario. Il “vero” socialismo le sembrò ottimo espediente per prendere due piccioni con una fava. Ed esso si diffuse come una epidemia.

Il manto ordito su una ragnatela speculativa, ricamato di spiritosi fiori oratori e stillante dolce rugiada sentimentale febbricitante di amore, questo manto di mistico entusiasmo, nelle cui pieghe i socialisti tedeschi nascondevano le loro stecchite “verità eterne”, servì solo ad aumentare lo spaccio della loro merce in mezzo a un tal pubblico.

Dal canto suo il socialismo tedesco riconobbe sempre meglio la sua missione, che era quella di essere l’ampolloso rappresentante di questa piccola borghesia.

Esso proclamò che la nazione tedesca è la nazione normale e il piccolo borghese tedesco l’uomo normale. A ogni bassezza di quest’uomo diede un significato nascosto, sublime, socialista, in modo che apparisse il contrario di quello che era. Conseguente fino all’ultimo, prese direttamente posizione contro la tendenza “brutalmente distruttiva” del comunismo, e si proclamò imparzialmente superiore a ogni lotta di classe. Salvo pochissime eccezioni, tutti gli scritti pretesi socialisti e comunisti che circolano in Germania appartengono a questa letteratura sordida e snervante (1.

(2) Il socialismo conservatore o borghese.

Una parte della borghesia desidera portar rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese.

Ne fanno parte gli economisti, i filantropi, gli umanitari, gli zelanti del miglioramento delle condizioni delle classi operaie, gli organizzatori della beneficienza, i membri delle società protettrici degli animali, i fondatori di società di temperanza e tutta la variopinta schiera dei minuti riformatori. Di questo socialismo borghese si sono elaborati persino dei veri sistemi. Citiamo ad esempio la “Philosophie de la misère” di Proudhon.

I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli chenecessariamente ne risultano. Vogliono la società attuale senza gli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza il proletariato. E’ naturale che la borghesia ci rappresenti il mondo dove essa domina come il migliore dei mondi. Il socialismo trae da questa consolante rappresentazione un mezzo sistema o anche un sistema completo. Ma quando invita il proletariato a mettere in pratica i suoi sistemi se vuoleentrare nella nuova Gerusalemme, gli domanda, in fondo, soltanto di restare nella società presente, a di rinunciare alla odiosa rappresentazione che si fa di essa.

Una seconda forma di questo socialismo, meno sistematica ma più pratica, ha cercato di distogliere la classe operaia da ogni moto rivoluzionario, dimostrando che ciò che le può giovare non è questo o quel cambiamento politico, ma soltanto un cambiamento delle condizioni materiali di vita, dei rapporti economici. Questo socialismo però non intende minimamente per cambiamento delle condizioni materiali di vita l’abolizione dei rapporti di produzione borghesi, che può conseguire soltanto per via rivoluzionaria, ma dei miglioramentiamministrativi realizzati sul terreno di questi rapporti di produzione, che cioè non cambino affatto il rapporto tra capitale e lavoro salariato, ma, nel migliore dei casi, diminuiscano alla borghesia le spese del suo dominio e semplifichino l’assetto della sua finanza statale. Questo socialismo borghese raggiunge la sua più esatta espressione quando diventa semplice figura retorica. Libero commercio! nell’interesse della classe operaia; dazi protettivi! nell’interesse della classe operaia; carcere cellulare! nell’interesse della classe operaia: ecco l’ultima, la sola parola seriamente pensata del socialismo borghese.

Il loro socialismo consiste appunto nel sostenere che i borghesi sono borghesi – nell’interesse della classe operaia.

(3) Il socialismo e il comunismo critico-utopistici.

Non parliamo qui della letteratura che in tutte le grandi rivoluzioni moderne enunciò le rivendicazioni del proletariato (scritti di Babeuf, ecc…).

I primi tentativi fatti dal proletariato per far valere il suo proprio interesse di classe in un tempo di fermento generale, nel periodo del rovesciamento della società feudale, dovevano necessariamente fallire, sia per il difetto di sviluppo del proletariato, sia per la mancanza di quelle condizioni materiali della sua emancipazione, le quali non possono essere che il prodotto dell’epoca borghese. La letteratura rivoluzionaria che accompagnò questi primi moti del proletariato è, per il suo contenuto, necessariamente reazionaria. Essa insegna un ascetismo universale e una rozza tendenza a uguagliare tutto.

I sistemi socialisti e comunisti propriamente detti, i sistemi di Saint-Simon, di Fourier, di Owen, eccetera, appaiono nel primo e poco sviluppato periodo della lotta fra proletariato e borghesia che abbiamo esposto sopra (si veda “Borghesia e proletariato”).

Gli inventori di questi sistemi, ravvisano bensì il contrasto fra le classi e l’azione degli elementi dissolventi nella stessa società dominante, ma non scorgono dalla parte del proletariato nessuna funzione storica autonoma, nessun movimento politico che gli sia proprio.

Siccome gli antagonismi di classe si sviluppano di pari passo con lo sviluppo dell’industria, gli autori di questi sistemi non trovano neppure le condizioni materiali per l’emancipazione del proletariato e vanno in cerca, per crearle, di una scienza sociale e di leggi sociali.

Al posto dell’azione sociale deve subentrare la loro azione inventiva personale; al posto delle condizioni storiche dell’emancipazione, condizioni fantastiche; al posto del graduale organizzarsi del proletariato come classe, un’ organizzazione della società escogitata di sana pianta. La storia universale dell’avvenire si risolve per essi nella propaganda e nell’esecuzione pratica dei loro piani sociali.

Essi, è vero, sono coscienti di patrocinare nei loro progetti principalmente gli interessi della classe operaia come classe che soffre di più di tutte le altre; ma il proletariato esiste per loro soltanto sotto l’aspetto di classe che soffre più di tutte.

La forma non sviluppata della lotta fra le classi e le loro personali condizioni di esistenza hanno come conseguenza che essi si credono di gran lunga superiori a questo antagonismo di classe.

Essi vogliono migliorare le condizioni di esistenza di tutti i membri della società, anche dei più favoriti. Perciò fanno appello alla classe dominante. Basta, secondo loro, capire il loro sistema per riconoscere che è il miglior piano possibile della società migliore possibile.

Essi respingono quindi ogni azione politica, e specialmente ogni azione rivoluzionaria, vogliono raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici, e cercano, con piccoli e naturalmente inani esperimenti, di aprire la strada al nuovo vangelo sociale con la potenza dell’esempio.

Questa descrizione fantastica della società futura corrisponde, in un momento in cui il proletariato è ancora pochissimo sviluppato, cosicché esso stesso si rappresenta in modo ancora fantastico la sua propria posizione, al suo primo impulso, pieno di presentimenti, verso una trasformazione generale della società.

Questi scritti socialisti e comunisti sono fatti però anche di elementi critici. Essi attaccano tutte le basi della società esistente; perciò hanno fornito elementi di grandissimo valore per illuminare gli operai. Le loro affermazioni positive sulla società futura, per esempio l’abolizione del contrasto fra città e campagna, della famiglia, del guadagno privato, del lavoro salariato, l’annuncio dell’armonia sociale, la trasformazione dello Stato in una semplice amministrazione della produzione – tutte queste loro affermazioni esprimono soltanto lo sparire del contrasto fra le classi, che comincia appena a svilupparsi proprio in quel momento e che essi conoscono appena nella sua prima indeterminatezza rudimentale. Perciò queste stesse affermazioni hanno ancora un senso puramente utopistico.

L’importanza del socialismo e del comunismo critico-utopistici è in ragione inversa allo sviluppo storico. A misura che la lotta fra le classi si sviluppa e prende forma, questo fantastico elevarsi al di sopra di essa, questo fantastico combatterla perde ogni valore pratico, ogni giustificazione teorica. Perciò, anche se gli autori di questi sistemi erano per molti aspetti rivoluzionari, i loro scolari formano sempre delle sette reazionarie. Essi tengono fermo alle vecchie opinioni dei maestri, in opposizione al progressivo sviluppo storico del proletariato. Essi cercano perciò conseguentemente di smussare di nuovo la lotta di classe e di conciliare i contrasti. Sognano ancor sempre la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali, la formazione di singoli falansteri, la fondazione di colonie in patria, l’edificazione di una piccola Icaria (2 – edizione in dodicesimo della Nuova Gerusalemme – e per la costruzione di tutti questi castelli in aria fanno appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi. A poco a poco essi cadono nella categoria dei socialisti reazionari o conservatori da noidescritti più sopra, e si distinguono da essi soltanto per una pedanteria più sistematica, per la fede fanatica e superstiziosa nella virtù miracolosa della loro scienza sociale.

Essi si oppongono perciò con accanimento a ogni movimento politico degli operai, il quale non può provenire, secondo loro, che da una cieca incredulità nel nuovo vangelo.

Gli owenisti in Inghilterra, i fourieristi in Francia, reagiscono gli uni contro i cartisti, gli altri contro i riformisti.

Capitolo IV

POSIZIONE DEI COMUNISTI RISPETTO AI DIVERSI PARTITI D’OPPOSIZIONE

Da quanto abbiamo detto nel secondo capitolo si comprende da sé quali siano i rapporti dei comunisti verso i partiti operai già costituiti, e quindi anche verso i cartisti in Inghilterra e i riformatori agrari nell’America del Nord.

I comunisti lottano per raggiungere gli scopi e gli interessi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano in pari tempo l’avvenire del movimento stesso. In Francia i comunisti si uniscono al partito socialista democratico (3 contro la borghesia conservatrice e radicale, senza rinunciare perciò al diritto di serbare un contegno critico di fronte alle frasi e illusioni derivanti dalla tradizione rivoluzionaria.

In Svizzera sostengono i radicali, senza disconoscere che questo partito è composto di elementi contraddittori, e cioè in parte di socialisti democratici nel senso francese, in parte di radicali borghesi.

Fra i polacchi i comunisti appoggiano il partito che mette come condizione del riscatto nazionale una rivoluzione agraria; quello stesso partito che suscitò l’insurrezione di Cracovia nel 1846.

In Germania il partito comunista lotta insieme con la borghesia, ogni qualvolta questa prende una posizione rivoluzionaria contro la monarchia assoluta, contro la proprietà fondiaria feudale e contro la piccola borghesia reazionaria.

Esso però non cessa nemmeno per un istante di sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più è possibilechiara dell’antagonismo e dell’inimicizia esistenti fra borghesi e proletariato, affinché gli operai tedeschi siano in grado di servirsi subito delle condizioni sociali e politiche che la borghesia deve introdurre insieme col suo dominio, come di altrettante armi contro la borghesia, e affinché dopo la caduta delle classi reazionarie in Germania subito si inizi la lotta contro la borghesia stessa.

Sulla Germania i comunisti rivolgono specialmente la loro attenzione, perché la Germania è alla vigilia della rivoluzione borghese, e perché essa compie tale rivoluzione in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più sviluppato che non avessero l’Inghilterra nel diciassettesimo secolo e la Francia nel diciottesimo; in cui la rivoluzione borghese tedesca non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria.

In una parola, i comunisti appoggiano dappertutto ogni moto rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti.

In tutti questi moti essi mettono avanti sempre la questione della proprietà, abbia essa raggiunto una forma più o meno sviluppata, come la questione fondamentale del movimento.

I comunisti finalmente lavorano all’unione e all’intesa dei partiti democratici di tutti i paesi.

I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Essi dichiarano apertamente che i loro scopi non possono essere raggiunti che con l’abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente. Tremino pure le classi dominanti davanti a una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare.

PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITEVI! ___________________________________________________________________________________________

1) nota di Engels all’edizione tedesca del 1890: “La bufera rivoluzionaria del 1848 ha spazzato via tutta questa sordida scuola e tolto ai suoi rappresentanti ogni voglia di continuare a fare del socialismo. Il rappresentante principale e il tipo classico di questa scuola è il signor Karl Grün”.

2) nota di Engels all’edizione inglese del 1888: “Falanstero era la designazione delle colonie socialiste progettate da Charles Fourier; Cabet chiama Icaria la sua utopia e poi le sue colonie comuniste in America” – Nota di Engels all’edizione tedesca del 1890: “Home-colonies (Colonie in patria) chiamava Owen le sue società modellocomuniste. Falanstero era il nome dei palazzi sociali ideati da Fourier. Icaria si chiamava il fantastico paese utopistico, le cui istituzioni comuniste vennero descritte da Cabet”.

3) nota di Engels all’edizione inglese del 1888: “Partito che era allora rappresentato nel parlamento da Ledru-Rollin, nella letteratura da Louis Blanc e nella stampa quotidiana dalla ‘Réforme’. Il termine socialdemocrazia indicava, per questi suoi inventori, quella parte del partito democratico repubblicano che aveva una sfumatura più o meno socialista”.

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