martedì, Settembre 26

ENZO TORTORA, UNA PRESENZA INQUIETANTE NEGLI ANNI PIU’ OSCURI DELLA NOSTRA STORIA

di Redazione

Stiamo assistendo in questi giorni alla santificazione di due personaggi, Silvio Berlusconi ed Enzo Tortora, tutti interni a vicende eversive e criminali del nostro Paese.

È un vero e proprio attacco mediatico, una vera guerra che fa un uso pianificato della propaganda e altre azioni psicologiche con lo scopo di influenzare le opinioni delle nuove generazioni attraverso un uso sapiente delle emozioni, facendo passare queste persone per vittime della malagiustizia, per giungere a indurre i loro atteggiamenti e comportamenti all’accettazione della fasulla narrazione funzionale all’obiettivo della controriforma della giustizia in atto, uno degli obiettivi principali del Piano di rinascita della atlantica loggia massonica P2.

Per onestà intellettuale vediamo di ricostruire in questo nostro sito la figura del meno conosciuto Enzo Tortora, che è passato alla storia, grazie ai soliti liberalborghesi radicali come Pannella e soci, come una vittima innocente della magistratura e dei pentiti di camorra.

Siamo all’inizio degli anni Ottanta, nel periodo in cui pentiti veri di mafia, collaboratori di giustizia, cominciano a parlare con magistrati come Falcone e Borsellino, Ciaccio Montalto, Carlo Palermo, che per i gruppi di potere esistenti, nazionali e internazionali, andavano assolutamente fermati, facendo terra bruciata attorno a loro e assassinandoli.

È dimostrato che Enzo Tortora era un uomo legato al golpista e piduista Edgardo Sogno, quindi con collegamenti interni a quei settori collusi della magistratura, dei servizi e della criminalità organizzata come la camorra, abbia svolto un ruolo attivo nell’eversione tramite il giornale il Resto del Carlino, facendo passare la tesi fascio-golpista che Pietro Valpreda, quindi la sinistra, fosse l’autrice della strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969.

La vicenda di Enzo Tortora è la continuazione di quella operazione fatta tramite l’uso dei media, operazione tesa a colpire quella parte della magistratura che non piegava la testa davanti alle nefandezze del potere. Infatti come a Berlusconi, tessera P2 n. 1816, così ad Edgardo Sogno, tessera P2 n. 786, capo politico e militare di Enzo Tortora, sono stati concessi i funerali di Stato, golpista. E tutti quelli che hanno partecipato a quelle esequie ne hanno fatto e continuano a farne parte, traendone inconfessabili benefici.

Per capire meglio il significato di certi funerali riportiamo l’inizio di un articolo di societacivile.it sui funerali di Stato concessi ad Edgardo Sogno, punto di riferimento di persone come Enzo Tortora.

“Una bara coperta dal tricolore su un affusto di cannone: così, con i funerali di Stato, si è conclusa nell’agosto 2000 la lunga e avventurosa vita di Edgardo Sogno Rata del Vallino, per alcuni eroe partigiano, per altri golpista «bianco», per tutti infaticabile e irrefrenabile combattente anticomunista. Quei funerali, ad onta di chi nega l’esistenza del «doppio Stato», ne sono stati l’epifania: la dimostrazione plastica della sua esistenza, la sua improvvisa visualizzazione tridimensionale. Lo Stato, in quel giorno estremo, ha simbolicamente riconosciuto come propria la storia politica e militare di Sogno, ha rivendicato infine le sue azioni compiute in vita, ha assunto su di sé la sua carica eversiva. C’è uno Stato che indaga (invano) sull’eversore dell’ordine costituzionale; e uno Stato che gli tributa gli onori concessi ai servitori più fedeli: eccolo qui, visibile come mai prima, il doppio Stato”.

Riportiamo qui sotto alcuni articoli fondamentali per la comprensione del contesto e del ruolo svolto da persone come Enzo Tortora nel trasformare la Repubblica nata dalla Resistenza al nazifascismo, nell’attuale seconda e piduistica Repubblica intrisa di cultura reazionaria e profondamente antidemocratica.

https://www.articolo21.org/2019/12/la-strage-di-piazza-fontana-mezzo-secolo-dopo/

La Strage di Piazza Fontana mezzo secolo dopo

Vittorio Emiliani

12 Dicembre 2019

Dalle pagine e pagine dedicate ai 50 anni della strage di piazza Fontana a Milano emerge un dato di fondo: i servizi segreti, non deviati, ma di Stato furono prontissimi, fulminei direi, nel salire in massa a Milano, a connettersi con i vari Guida e Allegra della locale Questura, a far sparire quante più prove era possibile e ad orchestrare il depistaggio sistematico fino a costruire la falsa “pista anarchica”, le “piste rosse”, ecc.

Questa rete di copertura dei veri responsabili e di contemporaneo sviamento delle indagini (quelle vere) fu però reso possibile anche da un atteggiamento quasi generale dell’informazione, scritta e televisiva, ossequiente verso il potere, obbediente alle veline o alle conferenze-stampa fasulle, fin dalle prime ore. Con una sola eccezione fra i quotidiani indipendenti, quella del Giorno diretto da Italo Pietra fino al 1972, e fra i settimanali L’Espresso diretto da Gianni Corbi fino all’aprile 1970 e poi da Livio Zanetti a lungo. Non molto di più fra i fogli di tiratura elevata (il Giorno, dove lavoravo, stava oltre le 200.000 copie, superandole di molto col Giovedì dei ragazzi e la domenica). 

A poche ore dalla bomba il quotidiano dell’ENI titolò a tutta pagina “Infame provocazione”, mentre il titolo del fondo di Pietra era “Non prevarranno”. Di qualunque parte essi fossero. Ma a noi era chiaro che erano di estrema destra. Fu la base politica per costruire subito una linea da vero giornale d’inchiesta laico, democratico e antifascista – qual era il nostro – che non prestava fede alle versioni “ufficiali”, ma, correndo dei rischi certamente, le contestava, le smontava, le sbugiardava. Protagonisti di questa operazione quotidiana furono Marco Nozza, Corrado Stajano (che aveva soltanto un contratto di collaborazione), Guido Nozzoli, Manlio Mariani e, soprattutto sul piano dei commenti, Giorgio Bocca che tuttavia forzava per una sua interpretazione, dichiarata anche in pubblico (la CIA ha messo le bombe), sulla quale il direttore Pietra scuoteva la testa alzando gli occhi al cielo.

Il “Corriere della Sera” diretto da Giovanni Spadolini molto preoccupato dal crescere a Milano della torbida marea della “maggioranza silenziosa” assecondò o non contrastò comunque la linea ufficiale del Ministero dell’Interno, dei suoi numerosi inviati da Roma, della Questura di Milano. Né disse qualcosa di diverso dall’ufficialità sulla morte in Questura dell’anarchico vero e serio Giuseppe Pinelli detto Pino, animatore del Circolo della Ghisolfa. Al Giorno sollevammo dubbi fortissimi su quella “morte in Questura” al punto che oltre cento redattori (la totalità in pratica) pubblicarono poi per alcuni anni un necrologio che suonava come un ammonimento, con tutte le firme: “morto in Questura”. Per la Stampa operava a Milano Giampaolo Pansa che tenne un atteggiamento onestamente critico. Con un solo scivolone: rivelò infatti che Camilla Cederna, punta acuminata dell’Espresso nella campagna contro la “pista anarchica” fondata sul tassista Rolandi, aveva una scorta della Polizia e il fatto suscitò la reazione furibonda della destra e dei giornali che meglio la interpretavano, compresi Carlino e Nazione per i quali scriveva all’epoca Enzo Tortora. Qualcuno raccontò di una Camilla “le cui mani grondano sangue”. Un clima pestilenziale. 

La pista anarchica fu subito avallata dal Tg1: ho ancora nella memoria visiva un giovane Bruno Vespa che annuncia al popolo televisivo “Scoperto l’autore della strage di piazza Fontana: è l’anarchico Pietro Valpreda”. Il direttore era Villy De Luca organico alla Dc moderata. A Milano uscivano ancora i quotidiani del pomeriggio e La Notte di Nino Nutrizio si segnalava ovviamente per una linea forcaiola. 

Questo per disegnare il panorama dell’informazione milanese schierata largamente con le versioni ufficiali e quindi ignorando o fingendo di non vedere i depistaggi ora documentati in maniera impressionante dalle carte “desecretate”, con l’eccezione del Giorno (soprattutto finché ci fu Italo Pietra alla direzione, cioè fino al 1972 e però Marco Nozza continuò a battersi con grande coraggio e sofferenza) e dell’Espresso, fino all’arrivo al Corriere della Sera, sempre nel 1972, di Piero Ottone al posto di Giovanni Spadolini licenziato da Giulia Maria Crespi. Fu dunque un miracolo laico se quei pochi giornalisti, quelle poche testate, poi corroborate dal cambio di direzione in via Solferino e a Roma al Messaggero dopo il ’74 (con Pietra e quindi Luigi Fossati), e da un maggior impegno di Panorama, riuscirono a valorizzare il paziente lavoro nel Veneto del giudice di Treviso, Giancarlo Stiz il primo a individuare e a connettere la trama “nera” dei Freda e dei Ventura.

Mi è sembrato giusto ricordarlo per attribuire i meriti reali a chi li ha avuti e per dire che un pugno, certo molto agguerrito, di colleghe e colleghi sconfisse, alla fine, nella sostanza l’omertà di Stato e anche la connivenza di tanta altra informazione, stampata e televisiva.

Per ricostruire il vasto mosaico dei depistaggi a me è parso nuovo e particolarmente utile (senza forzature, senza voglie di scoop, basato sui documenti) il libro recentissimo di Paolo Brogi edito da Castelvecchi “Pinelli, l’innocente che cadde giù”. Nel quale, fra i molti funzionari saliti da Roma a prendere l’iniziativa, campeggia come “depistatore” e altro la figura del vice-capo del Sisde, il questore Silvano Russomanno, morto  qualche anno fa, che fu uno di quelli che più pressarono negli interrogatori Pinelli,  molto più di Calabresi, e che nell’80 ricompare nella vicenda dei verbali Peci forniti al Messaggero, da me diretto (purtroppo), per farci fare un primo botto e preparare su Paese Sera, ormai fiancheggiatore del Pci, quello vero e clamoroso: “Marco Donat Cattin terrorista di Prima Linea”. Con l’evidente intento di colpire il padre Carlo, autore con Forlani, del Preambolo contro l’ingresso comunista al governo. Operazione chiaramente di matrice andreottiana nella quale ingenuamente cademmo.

Fu quindi del tutto sbagliata la campagna anti-LuigiCalabresi di Lotta Continua , che tanto ha pesato poi su numerose vite. E’ un dato che il figlio Mario e altri famigliari avrebbero dovuto e dovrebbero rivendicare. Fu lo squadrone dei Servizi salito immediatamente da Roma insieme ai Guida e agli Allegra a manipolare da subito tutta la vicenda appoggiati da quanti credevano ciecamente nella teoria degli “opposti estremismi” affermata fra gli altri da Giuseppe Saragat nel novembre 1969 dopo la morte a Milano dell’agente Antonio Annarumma. Si doveva sbarrare la strada alle riforme sociali reclamate dall’<<autunno caldo>> sindacale fra settembre e dicembre 1969. “Il Giorno lo paghiamo coi soldi pubblici e attacca il governo!” , grida Saragat (interpretato dal bravissimo Omero Antonutti) nel film-documento di Marco Tullio Giordana. Quando nel ‘72 risalì al governo, con Andreotti, la destra di Giovanni Malagodi, uno dei primi bersagli fu non caso Italo Pietra, subito dopo il voto.

http://www.societacivile.it/focus/articoli_focus/Sogno_3.html

Campioni d’Italia

Edgardo Sogno
Doppio Sogno o doppio Stato?


4. Sogno golpista «bianco»


Il combattente Sogno, dopo l’esperienza di Pace e Libertà, rientra nei ranghi e nel ruolo del ministero degli Affari esteri e passa alcuni anni fuori dall’Italia come diplomatico in Birmania. Rientra in patria nel 1970 e subito fonda i Comitati di Resistenza Democratica. Sostiene di essere tornato in Italia «in un momento eccezionale, in obbedienza a un dovere morale». Il momento, effettivamente, è eccezionale: la strage di piazza Fontana, nel dicembre 1969, ha appena dato il via alla cosiddetta «strategia della tensione», che nella mente dei suoi ideatori avrebbe dovuto portare a un cambiamento istituzionale e a una svolta autoritaria. Quelli dal 1970 al ’74 sono gli anni più intensi della «guerra non ortodossa», teorizzata e preparata da un convegno, il noto incontro del 1965 all’Hotel Parco dei Principi a Roma, organizzato dai servizi e dallo Stato Maggiore della Difesa con la partecipazione di alcuni leader del neofascismo italiano. All’avvio della fase della «distensione» tra Est e Ovest, i promotori del convegno (e della «guerra non ortodossa») sostengono che il comunismo non si sta «aprendo», ma sta soltanto utilizzando tecniche più sofisticate per penetrare in Occidente. Il nemico è il «dialogo», considerato il cavallo di Troia del comunismo nell’Occidente. Il pericolo è alle porte, dunque, e in un momento di rischio eccezionale per l’Italia bisogna rispondere con mezzi adeguati ed energie eccezionali. Dopo il 1968 degli studenti e il ’69 degli operai, la società italiana si è spostata a sinistra e il Pci potrebbe conquistare il potere per via elettorale. Diversi centri si attivano per scongiurare il pericolo: alcuni ruotano attorno agli ambienti della destra estrema, altri attorno agli apparati statuali e agli ambienti atlantici. Il fine, per tutti, è unico: impedire comunque l’arrivo dei comunisti al potere, con ogni mezzo. Le tattiche sono diverse: alcuni, come gli uomini raccolti attorno al principe Junio Valerio Borghese, puntano al golpe classico, con forti tinte neofasciste; altri, come Sogno e Pacciardi, progettano una svolta presidenzialista e gollista per dare all’Italia un «governo forte» e una «Seconda Repubblica»; altri ancora ritengono che sia sufficiente minacciare il golpe per mantenere e consolidare gli equilibri e ritengono che azioni anche violente di disordine possano essere giocate come carta per ottenere una generalizzata richiesta d’ordine («destabilizzare per stabilizzare»). Sogno si getta nella mischia. Ristabilisce i contatti con i vecchi partigiani bianchi della Franchi. Sono con lui Angelo Magliano, Aldo Cucchi, Rino Pachetti, Andrea Borghesio ed Enzo Tiberti (di cui, molti anni dopo, sarebbe emersa l’appartenenza alla struttura Gladio). Insieme preparano un progetto presidenzialista. Sostenitori e finanziamenti non mancano. Dichiarerà anni dopo il direttore delle relazioni esterne della Fiat, Vittorino Chiusano, al giudice istruttore di Torino Luciano Violante: «Nel 1970 o 1971, non ricordo bene, il dottor Sogno venne nel mio ufficio esponendomi la necessità di un finanziamento per svolgere un’azione politica che mi sembrava interessante nei confronti del Pli. Sostanzialmente si trattava di fare di questo partito l’elemento catalizzatore della destra democratica anche per sbloccare i voti congelati nel Msi. Il discorso mi è sembrato valido e ho disposto il versamento di contributi per lo svolgimento di questa attività». Dalla sola Fiat, Sogno riceve tra il 1971 e il 1974 almeno 187 milioni dell’epoca, che gli servono, secondo le dichiarazioni di Chiusano, per «conquistare» il Pli e «aprire» al Msi. Il 30 maggio 1970 nascono ufficialmente i Comitati di Resistenza Democratica: nell’abitazione dell’architetto Guglielmo Mozzoni, a Biumo di Varese, presente «una trentina di ex partigiani democratici», secondo il racconto dello stesso Sogno. Nel programma in dieci punti stilato quel giorno si legge: «La crisi che si presenta come certa, anche se a un’epoca non ancora precisabile, è una crisi profonda dello Stato e delle istituzioni. Essa costituisce una svolta, un punto limite oltre il quale viene a mancare la base di legittimità su cui la Repubblica è stata fondata». Per questo si rende necessario «ristabilire il carattere democratico, occidentale e nazionale del regime». «Al momento della crisi rappresenteremo l’unica alternativa con una preparazione e una legittimità per la fondazione della seconda Repubblica». Al Comitato di Sogno aderiscono due stranieri eccellenti: John McCaffery Junior, il figlio dell’uomo che nel 1943-45 guidò da Ginevra i servizi segreti inglesi in Italia, ed Edward Philip Scicluna, che durante la guerra fu paracadutato tra i partigiani come ufficiale di una missione inglese e divenne poi capo della Divisione Lavoro della Commissione Alleata in Piemonte. Nel 1970 Scicluna era direttore generale della Fiat Agency and Head Office a Malta. Ha contatti con Sogno anche Hung Fendwich, ingegnere americano dirigente dell’industria elettronica Selenia, considerato eminenza grigia della Cia in Italia e intermediario tra il presidente Usa Richard Nixon e il principe golpista italiano Junio Valerio Borghese. Al pubblico, il movimento di Sogno è presentato il 20 giugno 1971. Sono appena state aperte le urne delle elezioni amministrative parziali del 13 giugno, in cui l’estrema destra ha avuto un buon risultato elettorale. Sogno proclama: «Si avvicina il momento in cui sono necessarie soluzioni che non rientrano più nella meschinità del calcolo e del dosaggio politico ordinario, il momento in cui fatalmente prevale chi sa concepire una comunità più ricca di motivi ideali, una società fondata su valori morali più generosamente e generalmente sentiti». Nell’ottobre successivo, un gruppo di medaglie d’oro della Resistenza iscritte alla Fivl, la Federazione Italiana Volontari della Libertà, firma un appello contro i «frontismi estremi» e a favore di Edgardo Sogno. Nel gennaio 1972 inizia le pubblicazioni la rivista Resistenza Democratica: editore è Enzo Tiberti, ex partigiano delle Brigate Garibaldi, iscritto al Pci fino al 1948, poi passato al fronte anticomunista ed entrato nel 1960 nelle file di Gladio. Il primo numero della rivista ha articoli firmati, tra gli altri, da Massimo De Carolis, da Aldo Cucchi, dal generale Sabatino Galli. Sul secondo numero di Resistenza Democratica il giornalista televisivo Enzo Tortora scrive sulle «follie del dittatore-attore Fidel Castro» e compaiono anche articoli in favore del Movimento nazionalista ucraino che si rifà al governo filonazista di Jaroslav Stetzko. A una delle manifestazioni del Comitato, il 28 febbraio 1972 al teatro Odeon di Milano, accanto a Sogno ci sono il massone Aldo Cucchi, il solito Massimo De Carolis e un socialdemocratico che farà strada: Paolo Pillitteri. Nel frattempo si riavvicina a Sogno anche Luigi Cavallo, che aveva già collaborato con lui negli anni Cinquanta, ai tempi eroici di Pace e Libertà. Nel settembre 1973, all’indomani del golpe del generale Pinochet in Cile, Sogno commenta: «Nel caso del Cile è ingiusto e disonesto accusare i militari di aver ucciso la democrazia». Nel novembre successivo, parlando a Milano, afferma: «In momenti come questi non possiamo lasciare il nostro destino e quello dei nostri figli nelle mani di politici di mestiere che hanno perso il senso della storia e si sono rassegnati al peggio. Nei momenti decisivi per questo Paese noi abbiamo sempre avuto piccole minoranze, uomini singoli che sono intervenuti e che hanno assunto la responsabilità della guida morale e delle grandi decisioni. Di fronte alla situazione in cui stiamo scivolando, l’intelligenza e il mestiere politico non sono più sufficienti». E ancor più chiaramente: «La ripresa di un cammino ascendente nello sviluppo economico, sociale e politico del Paese è impossibile senza una rottura della continuità con l’attuale regime, senza una radicale modificazione dell’attuale quadro politico e senza il totale ricambio dell’attuale classe politica». Con il passare dei mesi, si accentuano i caratteri eversivi del movimento e si riducono le distanze tra le due ali del «partito del golpe» che è al lavoro in Italia: molti partigiani abbandonano Sogno, che si avvicina invece agli uomini del principe Borghese, come Remo Orlandini; e Andrea Borghesio, amico personale di Sogno e sostenitore del suo progetto fin dalla prima ora, entra nell’esecutivo piemontese del Fronte Nazionale di Borghese, fianco a fianco con il neonazista Salvatore Francia, capo piemontese di Ordine Nuovo. Sogno dunque, per sua stessa ammissione, lavora per la «rottura», per «una radicale modificazione» del quadro politico. Progetta un piano eversivo che sarebbe dovuto scattare mentre le grandi fabbriche erano chiuse e l’Italia era in vacanza, tra il 10 e il 15 agosto 1974. Prepara un’azione, anche armata, che sarebbe scattata in caso di vittoria elettorale delle sinistre. Un «golpe bianco», anticomunista e liberale, un’azione «violenta, spietata e rapidissima». Secondo le dichiarazioni di Luigi Cavallo, avrebbe dovuto essere «un golpe di destra con un programma avanzato di sinistra, che divida lo schieramento antifascista e metta i fascisti fuori gioco». Un colpo organizzato «con i criteri del Blitzkrieg: sabato, durante le ferie, con le fabbriche chiuse ancora per due settimane e le masse disperse in villeggiatura». Conseguenze immediate: lo scioglimento del Parlamento, la costituzione di un sindacato unico, la formazione di un governo provvisorio espresso dalle Forze Armate, che avrebbero dovuto attuare un «programma di risanamento e ristrutturazione sociale del Paese», una riforma elettorale-costituzionale da sottoporre a referendum, l’attuazione di una politica sociale avanzata che consentisse «il rilancio dello sviluppo economico». La lista del nuovo «governo forte» era pronta. Presidente del Consiglio: Randolfo Pacciardi; sottosegretari alla presidenza del Consiglio: Antonio de Martini e Celso De Stefanis; ministro degli Esteri: Manlio Brosio; ministro dell’Interno: Eugenio Reale; ministro della Difesa: Edgardo Sogno; ministro delle Finanze: Ivan Matteo Lombardo; ministro del Tesoro e del Bilancio: Sergio Ricossa; ministro di Grazia e Giustizia: Giovanni Colli; ministro della Pubblica istruzione: Giano Accame; ministro dell’Informazione: Mauro Mita; ministro dell’Industria: Giuseppe Zamberletti; ministro del Lavoro: Bartolo Ciccardini; ministro della Sanità: Aldo Cucchi; ministro della Marina mercantile: Luigi Durand de la Penne. Il governo di tecnici imposto dal «golpe bianco» sarebbe stato legittimato davanti all’opinione pubblica – nei progetti dei suoi strateghi – dalla contemporanea messa fuori legge del Msi e dei gruppi extraparlamentari di destra e di sinistra: ciò avrebbe dovuto garantire una sorta di equidistanza politica. La fine dell’immunità parlamentare e un tribunale speciale per i politici, accusati di essere corrotti e incapaci, avrebbero dovuto infine assicurare consenso al «rinnovamento» e una legittimazione «morale» alla svolta eversiva, presentata come intervento necessario per salvare il Paese.
(4.continua)

http://www.societacivile.it/focus/articoli_focus/Sogno_4.html

Campioni d’Italia
Edgardo Sogno
Doppio Sogno o doppio Stato?


5. Il biennio nero

In quegli anni cruciali, tra il 1970 e il ’74, in Italia dunque si muove un grande, composito, non privo di conflitti «partito del golpe». Il principe Junio Valerio Borghese prepara un colpo di Stato, sostenuto dai movimenti neonazisti italiani, Ordine Nuovo di Pino Rauti e Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, appositamente riuniti sotto la nuova sigla Fronte Nazionale. Per una cruciale «ora x» del 1973 erano pronti a scattare anche i congiurati, militari e civili, della Rosa dei Venti. E per l’agosto 1974 era programmato il «golpe bianco» di Sogno. Le stragi, in questo contesto, sono progettate come momenti di disordine, da addebitare ai «rossi», affinché il Paese reagisca chiedendo che venga ristabilito l’ordine. L’«ora x» non scatta, ma nel «biennio nero» ’73-’74 scattano molte azioni progettate e realizzate come preparatorie al golpe: 7 aprile 1973, attentato al treno Torino-Genova (fallito per l’imperizia dell’attentatore, l’ordinovista Nico Azzi, che si ferisce con l’innesco della sua bomba); 12 aprile 1973, manifestazione fascista a Milano con uccisione di un agente di polizia, colpito da una bomba a mano; 17 maggio 1973, strage alla questura di Milano, per mano del falso anarchico Gianfranco Bertoli (quattro morti, 46 feriti); 28 maggio 1974, strage di piazza della Loggia a Brescia (otto morti, 94 feriti); 4 agosto 1974, strage dell’Italicus (12 morti, 48 feriti). Brescia e Italicus fanno parte di un programma di quattro stragi, due delle quali, a Silvi Marina vicino a Pescara e a Vaiano in Toscana, sono fallite. Ma in tutta Italia sono centinaia gli attentati minori che vanno a segno. Intanto in Valtellina erano pronte le truppe armate di un altro partigiano bianco, Carlo Fumagalli. Pronta a Milano la «Maggioranza silenziosa» di Adamo Degli Occhi e Massimo De Carolis, il cui compito era dare sostegno di piazza all’attesa svolta istituzionale. Pronto anche il gruppo armato di Giancarlo Esposti, che stava forse preparando un clamoroso attentato a Roma quando, abbandonato da chi gli aveva promesso sostegno e copertura, viene abbattuto in un conflitto a fuoco al Pian del Rascino, il 30 maggio 1974. A tutta questa fittissima attività eversiva non erano estranei gli apparati istituzionali italiani e i centri informativi della Nato e degli Stati Uniti, che sapevano, tolleravano, vigilavano, ora spingevano, ora frenavano. Senza quella guida e quella tolleranza, il grande circo dell’eversione non serebbe durato più di qualche mese. Nel 1974, però, la svolta. Cambia il quadro internazionale, finisce (sotto i colpi dello scandalo Watergate) l’amministrazione Nixon negli Stati Uniti, cade il regime di Caetano in Portogallo e quello dei colonnelli in Grecia. In Italia, dentro gli apparati e nella politica, arriva alla resa dei conti lo scontro feroce tra un’ala più tradizionalmente filogolpista (a cui apparteneva, tra gli altri, il capo del Sid Vito Miceli) e un’ala più disposta a un cambiamento dei metodi della «guerra non ortodossa» (incarnata dal capo dell’Ufficio D del Sid Gianadelio Maletti e dal suo punto di riferimento politico, Giulio Andreotti). Durante questa durissima guerra intestina, nel 1974, anno cruciale, si aprono alcuni spiragli sulla verità: i magistrati di Milano Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini danno nuovo impulso alle indagini sulla strage di piazza Fontana, coinvolgendo direttamente anche l’informatore del Sid Guido Giannettini; un giovane giudice di Padova, Giovanni Tamburino, scopre il piano eversivo della Rosa dei Venti e fa arrestare addirittura il capo del Sid, Miceli; a Torino il giudice istruttore Luciano Violante apre un’inchiesta sul «golpe bianco» che farà finire in carcere Edgardo Sogno. Dura pochi mesi. Poi gli apparati e la politica tornano a garantire impunità per tutti, mentre la macchina giudiziaria disinnesca le tre indagini, strappate dalla Cassazione ai magistrati che le avevano avviate. Quella di Milano è spedita a Catanzaro, quelle di Padova e Torino a Roma, dove si bloccheranno per sempre.
(5.continua)

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