di Paola Baiocchi

Sono passati trentanove anni dalla morte a Padova di Enrico Berlinguer: ripercorriamo insieme i momenti dal comizio del 7 giugno fino alla mattina dell’11, quando ne viene annunciata la morte poco dopo l’arresto di uno austriaco che cercava di entrare nella stanza di rianimazione del segretario del PCI armato di due coltelli, dopo essere riuscito più volte nei giorni precedenti ad entrare nell’ospedale padovano. Seguiamo poi il velocissimo susseguirsi degli avvenimenti che nel giro di soli sei anni porta all’annientamento del PCI in nome di un “nuovo” di cui non si sentiva il bisogno e che ci ha lasciati sguarniti del più grande Partito Comunista dell’Occidente.
7 giugno 1984, Piazza della Frutta a Padova, mancano pochi giorni alle elezioni per il secondo rinnovo del Parlamento europeo. Viene installato il grande schermo da quattro metri per tre su cui ognuno, in qualsiasi punto della piazza si trovi, potrà seguire le parole del segretario come se si trovasse sotto il palco. Pietro Folena, segretario cittadino del PCI, dirige i lavori. Quella dello schermo è una novità quasi assoluta per il PCI: pare ci sia già stato un precedente a Milano, ma i padovani preferiscono pensare di essere i primi comunisti italiani a ricorrere a questa particolare tecnologia. Faranno una diretta del comizio.
Nessuno ha dato indicazioni ad Andrea Milani, l’operatore della società Target che seguirà la proiezione del comizio, di registrarlo. Di sua iniziativa carica una videocassetta che si è portato da casa.
Questa videocassetta dopo il comizio sarà oggetto di una trattativa con un’emittente francese, ma il PCI interverrà convincendo l’operatore che è più giusto cederla alla famiglia Berlinguer.
La sera del 7 giugno il tempo non è clemente e non sembra di essere vicini all’estate. Lampi e tuoni in lontananza, raffiche di vento freddo. Scende qualche goccia di pioggia. Anche Alberto Menichelli, l’autista di Berlinguer dal 1969 al 1984, ricorda che quella sera «era freddino» ma che «Berlinguer stava bene, stava bene».
Il comizio comincia alle 21,18 e si conclude circa un’ora dopo.
«Votando Partito comunista italiano si contribuisce a portare in Europa un’Italia diversa da quella a cui l’hanno ridotta i partiti che l’hanno governata finora e che la governano tuttora. Si contribuisce a portare in Europa non l’Italia della P2, ma l’Italia pulita e democratica è […] l’Italia delle donne che vogliono cambiare la società non solo per acquisire – si porta la mano alla bocca – una parità dei diritti – si asciuga la bocca con un fazzoletto – effettiva, all’accesso – ha un primo conato – ».
Enrico Berlinguer beve, riprende, termina con grande difficoltà il comizio, mentre la folla vive la sua stessa sofferenza e applaude per invitarlo a ridurre il suo intervento, in un respiro collettivo che resta sospeso ogni volta che Berlinguer si interrompe o beve per riprendersi.
«Lavorate tutti casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia».
Ha già gli occhi rovesciati all’indietro a mostrare il bianco quando viene fatto scendere dal palco sorretto dal primario di pneumologia all’ospedale di Padova il dottor Giuliano Lenci e da Daniele Lorenzi – segretario regionale dell’Arci – ma incomprensibilmente viene portato nella sua stanza all’Hotel Plaza, in corso Milano 40, e non al pronto soccorso.
L’albergo dista 650 metri dalla piazza, è un tragitto di 2 minuti in auto. Solo dopo un’ora viene portato all’ospedale Giustinianeo (un tragitto di 10/12 minuti) con l’ambulanza che il funzionario Digos addetto alla sorveglianza del segretario a Padova, Giuseppe Colucci, aveva già fatto arrivare all’Hotel quando si era accorto che Berlinguer sul palco stava male. Se l’ambulanza fosse arrivata direttamente in Piazza della Frutta avrebbe impiegato 7/8 minuti a portarlo all’ospedale. Perché si ritarda il ricovero al pronto soccorso?
Alfred Michlbauer, austriaco di 33 anni, viene arrestato la mattina dell’11 giugno davanti alla camera di Berlinguer all’ospedale. Secondo le indagini svolte all’epoca, dopo aver conseguito studi da tecnico-geometra, era iscritto già da sei anni alla facoltà di Storia e Filosofia di Gratz, dove abitava dal 1975.
Dalle indagini emerge che l’austriaco è entrato più volte nell’ospedale dove era ricoverato Berlinguer: alle 2 di notte dell’11 si era fatto accompagnare, da un poliziotto di guardia, nel locale dove si trovavano gli uomini del servizio d’ordine del PCI, nelle vicinanze della camera di Berlinguer. Intorno alle 9,20 della mattina dell’11 giugno viene fermato alla porta della rianimazione del segretario e arrestato perché trovato in possesso di due coltelli.
Processato dal pretore Trentanovi del Tribunale di Padova, viene condannato a sei mesi con la condizionale. Nella sentenza il pretore lamenta una scarsa collaborazione dall’Austria che non ha permesso di accertare le dichiarazioni di Michlbauer.
Il giovane austriaco aveva affermato di essere il capo di un’organizzazione cibernetica internazionale con sede a Innsbruck e spiegato la sua presenza a Padova con l’intenzione di suggerire ai medici curanti di Berlinguer una terapia del tutto nuova e alternativa rispetto alla medicina ufficiale. Il pretore, per niente convinto che si tratti di uno squilibrato nella sentenza lo descrive così “sedicente esperto in cibernetica, già geometra (attività che non svolge più da ben sei anni), già studente di filosofia, poeta a tempo perso…”.
Ne sottolinea le “vistose stramberie” e ipotizza che sia un sostenitore dell’eutanasia, trasmettendo gli atti alla procura della Repubblica per eventuali indagini, che non verranno svolte. Molte cose non tornano nel resoconto dell’austriaco che nel suo viaggio verso Padova si è fermato a Lubiana, nella ex Jugoslavia, per parlare con un luminare della neurochirurgia dicendogli di essere inviato dalla socialdemocrazia austriaca su mandato del PCI. Dopo di lui, a ruota, la Polizia jugoslava si era presentata dal neurochirurgo chiedendogli notizie del motivo della visita, segno che Michlbauer era stato attenzionato e seguito.
Dopo la condanna del giovane se ne sono perse le tracce per sempre.

Berlinguer aveva già subito un attentato: a Sofia il 3 ottobre 1973 era sopravvissuto per puro caso all’urto di un camion militare carico di pietre che si era staccato dalla fila che procedeva nella direzione opposta, puntando a tutta velocità la Ciaika, l’auto su cui viaggiava il segretario del PCI. Solo un palo aveva impedito che l’auto cadesse dal cavalcavia dopo l’urto, in cui aveva perso la vita l’interprete che accompagnava la delegazione italiana.
Dopo l’incidente sarebbe stato consigliabile che il segretario restasse almeno 48 ore in osservazione. Ma Berlinguer rispose che allora si sarebbe dovuto fare un comunicato per spiegare il ritardo; dall’ambasciata italiana il segretario del PCI telefona in Italia e ottiene che un aereo militare lo venga a prendere, probabilmente grazie all’intercessione di Aldo Moro, all’epoca ministro degli Esteri. Così il 4 ottobre l’aereo atterra senza nessuna pubblicità all’aeroporto militare di Roma. Berlinguer in famiglia e a Macaluso dice apertamente che non si è trattato di un incidente. Emanuele Macaluso nel 1991 renderà ufficiale la confidenza che Berlinguer gli aveva fatto.

13 giugno 1984: Roma è travolta da una folla immensa arrivata da tutta Italia per i funerali di Enrico Berlinguer. Sono milioni, molti non riusciranno nemmeno ad arrivare nelle vicinanze di piazza San Giovanni dove si svolge il comizio e come una macchia colorata che riempie Roma, verranno filmati dall’elicottero che effettua le riprese per il documentario collettivo L’addio a Enrico Berlinguer alla cui lavorazione partecipano 45 tra attori e registi del calibro di Ettore Scola, Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo, Gillo Pontecorvo, Silvano Agosti, Bernardo Bertolucci, Luigi Faccini, Luigi Perelli, Francesco Maselli, Paolo Pietrangeli.
In strada ci sono i militanti comunisti, c’è chi si è iscritto al PCI perché “c’era lui come segretario”, c’è chi lo ha visto solo in televisione ma sente di aver perso un alleato, un amico, un difensore dei diritti di tutti, un politico giusto e onesto, e perciò vogliono essere presenti a Roma, anche se non si trova più un solo pullman da noleggiare in tutta Italia e i treni sono presi d’assalto.
L’aria è ancora carica dell’emozione per i funerali e per l’inaspettata scomparsa del segretario, quando nel garage di Botteghe Oscure si incontrano D’Alema e Occhetto.
D’Alema ha 35 anni, di lui si dice che fin da piccolo si è “iscritto alla segreteria del Partito” e a febbraio ha accompagnato Berlinguer nel viaggio a Mosca per i funerali di Andropov, un’investitura politica di rilievo. Occhetto ha 48 anni e sente di essere il prescelto per la segreteria fin dai tempi della sua orazione funebre per i funerali di Togliatti.
Nel garage i due si accordano su chi succederà a Berlinguer, stabiliscono i tempi, sanno che dovranno procedere per gradi: dopo un gigante come Berlinguer il Partito non sarà aperto alla candidatura di un giovane e D’Alema lascia il passo per far andare avanti Occhetto che accetta… anche se dovrebbe sapere che non è bene avere D’Alema alle spalle.
Nel Comitato centrale del 26 giugno 1984, Alessandro Natta viene eletto segretario del PCI con 227 voti a favore, 11 astensioni e nessun voto contrario. Laureato alla Normale di Pisa, internato militare italiano nei lager tedeschi dopo il 1943, savonese schivo, Natta recalcitrante accetta “per senso del dovere”, sa che si troverà ad affrontare un percorso accidentato per tenere insieme il Partito, tra le ambizioni dei giovani quadri, le spinte della destra del partito per abbandonare le politiche berlingueriane e l’avanzare del craxismo.
Nel 1986 Natta viene riconfermato segretario a Firenze, al XVII Congresso (9-13 aprile). Il 30 aprile del 1988 Natta ha un malore mentre si trova a Gubbio per un comizio. Mentre è ricoverato in ospedale scopre di aver presentato “a sua insaputa” le dimissioni da segretario.
Il 21 giugno del 1988 il Comitato Centrale del Pci vota Achille Occhetto nuovo segretario generale.
Il 1989 è un anno denso di avvenimenti sconvolgenti che Occhetto vive con un programma intenso: ad aprile incontra Pierre Mauroy a Parigi per perorare l’ingresso del PCI nell’Internazionale socialista; a maggio Occhetto e il migliorista Giorgio Napolitano, volano negli Stati Uniti per cinque giorni. Napolitano è già stato negli Usa in precedenti occasioni e ha una fitta rete di relazioni, in particolare con Henry Kissinger. Ma è la prima volta per un segretario del PCI e gli incontri hanno la dignità di una visita di Stato, anche se le cronache riporteranno le dichiarazioni di Occhetto: «Mi sembra di essere in un film di Woody Allen».
Al Palazzo di vetro incontreranno il segretario generale dell’Onu, Javier Perez de Cuellar, terranno una serie di conferenze pubbliche al Council on Foreign relation e alla New York University, si vedranno con David Rockfeller, l’uomo simbolo del capitalismo.
Nella Grande mela i due si sono incontrati anche con Edgard M. Bronfman, leader delle comunità ebraiche mondiali. Quell’incontro, che è alla base dei successivi spostamenti in senso filo-sionista dei post comunisti, viene riportato in un articolo di Andrea Purgatori su il Corriere della Sera del 17 maggio: «Ho visto la sua foto sul New York Times – dice Bronfman – parafrasando Cartesio devo dunque concludere che lei esiste».
Nella notte tra il 3 e il 4 giugno arriva la notizia della repressione a Pechino, in piazza Tienanmen, dei manifestanti. In Italia si vota il 18 giugno per le europee e le immagini dell’uomo con le borse della spesa che fronteggia una fila di carri armati diventa argomento di dibattito politico. “Queste storiche manifestazioni erano rappresentate da quasi tutti i media internazionali come uno scontro tra studenti moderni e idealisti che volevano le libertà democratiche di stampo occidentale, e gli autoritari della vecchia guardia che volevano proteggere lo stato comunista” (N. Klein 2007). Non sono solo studenti, ma anche operai, piccoli imprenditori e insegnanti: chiedono che le riforme economiche di Deng siano all’interno degli elementi di socialismo già introdotti in Cina. “Le proteste non erano rivolte contro la riforma economica in sé; si opponevano alla specifica natura friedmaniana delle riforme”. Chiedevano più comunismo, non meno comunismo.
Il 9 novembre viene abbattuto il Muro che divideva le due Germanie.
Il 12 novembre alla sezione del PCI del quartiere, Bolognina durante un’iniziativa in ricordo della battaglia partigiana di Porta Lame, Occhetto annuncia quella che passerà alla storia con il nome della “svolta” senza che ci sia stata all’interno del Partito l’adeguata discussione che una decisione di questa portata avrebbe richiesto.
E perché la scelta di cambiare tutto, anche il nome del Partito, non viene dibattuta a tutti i livelli nel grande corpo del PCI fondato sul centralismo democratico? Teresa Bartoli, la giornalista che scrive l’intervista confessione di Occhetto Il sentimento e la ragione (1994), dà a Luca Telese (Qualcuno era comunista, 2009) una risposta tranchant: «Per come era il Pci di allora, se Occhetto avesse detto a chiunque dentro Botteghe Oscure quello che stava per fare […]. Molto probabilmente lo avrebbero chiuso in una cantina e avrebbero buttato via la chiave»
Le conseguenze sono sconvolgenti: un sondaggio Demoskopea pubblicato dal Corriere della Sera il 23 novembre conclude che “un comunista su due non vuole cambiare nome”.
Nelle sezioni si accende il dibattito: Nanni Moretti segue queste riunioni in tempo reale riprendendole tra novembre e dicembre, dalla sezione Testaccio di Roma a Francavilla di Sicilia, passando per il quartiere della Bolognina, e raccogliendole nel documentario La cosa, trasmesso per la prima volta da Rai 3 il 6 marzo del 1990, alla vigilia del XIX Congresso di Bologna (7-11 marzo). I militanti sono confusi, combattuti tra il timore di perdere il Partito e il rispetto per la dirigenza. Il documentario raccoglie anche la domanda centrale, la sintesi dello sgomento dei compagni e delle compagne: se il PCI aveva già preso le distanze dalla linea del Partito comunista sovietico, perché la caduta del Muro dovrebbe avere conseguenze sulla via italiana al socialismo rappresentata dal PCI?
Le sezioni si contrappongono tra il Sì e il No, si comincia a vedersi come opposti, tra “noi” e “voi”, tra “vecchio” e “nuovo”, come ben descrive il film Mario, Maria e Mario di Ettore Scola (1993).
La divisione scava nel profondo, nelle identità, nelle relazioni. E come nel film di Scola anche in famiglia ci si divide: Fabiola Modesti, madre di Massimo D’Alema, è durissima con il figlio “Sei uno degli artefici di questo gesto abbietto, non presentarti più a casa mia”. Anche Peppino Caldarola, a quei tempi direttore di Italia Radio, l’emittente del Partito, si separa dalla compagna – un’antiocchettiana granitica – quasi in contemporanea con il Congresso che segnerà la fine del PCI.
La sociologa Gianna Schelotto il 29 gennaio 1990 scrive un articolo per l’Unità dal titolo sconvolgente “Lui del Sì, lei del No. Si lasciano”. Le identità nell’articolo sono fittizie, ma la storia è vera, lei è una parlamentare del PCI e la storia davvero si conclude con grande dolore con la separazione, come sono vere le frasi cruciali raccolte dalla sociologa “Siamo ormai due comunisti nemici. Ma forse dovrei dire solo due nemici”.
Il 21 novembre 1989 all’interno del Comitato centrale più lungo della storia, cominciato il pomeriggio del 20 e terminato il pomeriggio del 24, si prefigura per la prima volta lo schema del doppio congresso: un primo per avviare la Costituente del nuovo partito, un secondo per dargli vita e approvare il nuovo nome e il nuovo simbolo. Ma si prefigura anche lo spettro della scissione. Agli oltre trecento membri del Comitato centrale si aggiungono anche i membri della Commissione di garanzia arrivando a una platea di oltre quattrocento persone. Appena il segretario conclude il suo intervento si aprono le iscrizioni a parlare, si registrano in duecentotrenta.
“11 gennaio 1991: Andreotti rispondendo alla Camera, a interpellanze e interrogazioni sulla struttura segreta di Gladio – la cui esistenza era stata ammessa il 18 ottobre 1990 dopo rivelazioni di stampa – ne sostiene la legalità e la costituzionalità. Trovo incredibile che noi non ne abbiamo mai saputo niente nonostante la lunga frequentazione che, nel periodo del terrorismo, Ugo Pecchioli ha avuto con il ministero degli Interni (soprattutto con Cossiga), capi della polizia e dei carabinieri, ex collaboratori di Moro, informatori vari, comitato di controllo sui servizi segreti”.
17 gennaio 1991: Gli Stati Uniti intervengono contro l’Iraq “a difesa dell’indipendenza del Kuwait”. Alle ore 0:50 è partita l’operazione “Desert Storm” con un massiccio bombardamento di F-15 partito dalle basi dell’Arabia Saudita.
Il simbolo del nuovo partito arriva in simultanea alla stampa, presentato da Occhetto, e ai dirigenti del Partito comunista. Nemmeno il nome è stato discusso all’interno del Partito e provoca un terremoto anche tra i sostenitori del sì: Antonio Bassolino avrebbe preferito Partito dei Lavoratori. I riformisti come Giorgio Napolitano considerano un grave escamotage l’aver rinunciato al nome e all’aggettivo “socialista”.
I primi commenti sono sconsolanti: “sembra un broccoletto”, Paolo Volponi: “Non sono i capelli di Occhetto?” per Cossutta assomiglia troppo a un garofano.
La sezione italiana di una famosa marca di scarpe, la Timberland, acquista di gran carriera pagine su giornali e quotidiani e con lo slogan “La vera Quercia viene da lontano” pubblicizza un suo mocassino.
XX Congresso, 31 gennaio – 3 febbraio 1991. Alla conclusione del Congresso che segna lo scioglimento del PCI, contrassegnato dalla presentazione di tre mozioni in aperta violazione dello Statuto del Partito Comunista, Occhetto non raggiunge il quorum per essere eletto segretario. Ne escono due partiti illegali: il PDS e il Partito della rifondazione comunista.
La decisione di far morire il PCI ha degli effetti devastanti immediati: alle elezioni politiche dell’aprile del 1992 il PDS viene votato da 6.321.084 persone, pari al 16,11%. Mentre il PRC prende 2.204.461 voti, pari al 5,62%.
Il totale dei due partiti segna una perdita di 1.729.046 voti rispetto al risultato del PCI nelle elezioni politiche del 1987 (10.254.591 voti, pari al 26,57%).
Si è realizzato in questo modo uno dei principali obiettivi della loggia massonica Propaganda 2, quello di far sparire dall’Italia il Partito Comunista Italiano e far nascere contemporaneamente i due poli della seconda piduistica Repubblica, il centrodestra e il centrosinistra, dove al centro dei due schieramenti è collocato il vero partito dei capitalisti, la massoneria.