giovedì, Settembre 21

USA E CINA; SEGNALI DI PACE?

https://www.facebook.com/watch/?extid=WA-UNK-UNK-UNK-AN_GK0T-GK1C&mibextid=2Rb1fB&v=1614026272361166

*i pipponi del Marrucci*

“a pechino si sono convinti che putin è pazzo”, titolava qualche giorno fa il corriere

“la cina sta cambiando la sua politica estera?”

carissimi ottoliner, benvenuti nell’ennesimo patetico capitolo del grande romanzo del wishful thinking suprematista occidentale

SIGLA PIPPONE

da qualche settimana sui media mainstream ha cominciato a farsi spazio una nuova favoletta buona per rinforzare il senso di superiorità di ogni sincero sostenitore della superiorità morale dell’occidente

la Cina infatti starebbe uscendo con le ossa rotte dal confronto con l’occidente, e starebbe rientrando nei ranghi con la coda tra le gambe

“la cina ammorbidisce il suo approccio al palcoscenico globale”, titolava l’emittente pubblico USA National Public Radio

“il piano cinese per riconquistare gli amici”, rilanciava il financial times

“i costi dell’uscita caotica dalla strategia zero-covid stanno esplodendo”, sottolinea l’articolo

e quindi Xi Jinping non può che tornare a cercare affannosamente il consenso del mondo civilizzato

lo dimostrerebbero una lunga serie di episodi, che in realtà sono due, e così a occhio non dimostrano granché

il primo è la promozione a ministro degli esteri dell’ex ambasciatore a washington, Qin Gang, che prima di lasciare gli USA ha scritto un editoriale sul Washington Post dove ha affermato addirittura di essere “sempre più convinto che la porta del dialogo tra cina e USA rimarrà aperta e che non può essere chiusa”

il secondo è che la prima cosa che ha fatto Qin Gang è cambiare il portavoce del ministero, Zhao Lijian

carissimo Zhao, ci mancherai

Zhao Lijian era diventato piuttosto famoso in occidente negli ultimi anni perchè trollava le classi dirigenti occidentali su twitter

era il simbolo dei così detti “wolf warrior”, una nuova generazione di funzionari cinesi che hanno sostituito il vecchio understatement imposto a tutti i livelli da Deng Xiaoping con un tono decisamente più aggressivo

non dico proprio bulletti dell’alta società come carletto libro cuore calenda, ma comunque piuttosto provocatori

ora, che la Cina voglia mandare messaggi piuttosto espliciti e intellegibili della volontà di abbassare i toni, non solo ci sta, ma è anche ovviamente auspicabile

quello che proprio non sta né in cielo né in terra è pensare che farlo sia una forma di capitolazione di fronte all’ennesimo trionfale successo della superiorità occidentale

così a occhio, se una qualche distensione c’è, e ovviamente tutti ci auguriamo vivamente che ci sia, è proprio perchè l’occidente ha fatto male i conti, e sta cominciando a esplorare il modo di fare marcia indietro senza coprirsi di ridicolo

“per gli stati uniti, una strategia basata sul tentativo di bloccare la crescita cinese presenta diversi problemi. il primo, fondamentale, è che non può funzionare”, scrive Foreign Affairs, il celebre bimestrale edito dal Council on Foreign Relations, che è in assoluto il think tank bipartisan più influente di tutti gli USA

Foreign Affairs ci ricorda come gli USA da Obama in poi in Asia abbiano perseguito esplicitamente l’obiettivo del primato assoluto. che però sarebbe un “compito impossibile”

“consideriamo, ad esempio, i passi che washington dovrebbe intraprendere per combattere una guerra a taiwan. la cina ha il vantaggio naturale della vicinanza geografica, e le coste dell’isola sono ampiamente a portata delle sue difese aeree. per rispondere a un eventuale attacco dell’esercito di liberazione popolare contro taiwan, gli USA dovrebbero impiegare una quantità di armamenti moderni assurda. darebbero vita a quello che il sociologo C. Wright Mills definiva “la corsa degli idioti”: accumulare missili e creare posizioni militari che alimentano lo sciovinismo da entrambe le parti, aumentano l’instabilità e portano ogni stato ad adottare le interpretazioni più malvagie delle intenzioni dell’altro”

anche l’idea del predominio economico nell’area secondo Foreign Affairs sarebbe altrettanto irrealistica

la Cina infatti “non solo è il principale finanziatore di tutta l’area, ma anche l’hub centrale di un network manifatturiero che produce beni per l’intero mercato mondiale, e il principale partner commerciale per sostanzialmente tutti i paesi”

non solo, la Cina è parte attiva di tutte le istituzioni multilaterali che costituiscono l’architettura economica dell’intero continente: dal trattato commerciale della Regional Comprehensive Economic Partnership, all’Asian Bond Markets Initiative, passando per l’ASEAN+3. “washington al contrario, non è presente in nessuna”

per tutte queste ragioni “I leader asiatici sono diffidenti nei confronti di qualsiasi misura che potrebbe causare l’implosione dell’economia cinese: le economie dell’area sono così fortemente interconnesse che se la Cina fallisse si porterebbe ovviamente dietro tutta l’Asia”

e conclude: “gli USA dovrebbero confrontarsi con l’Asia così com’è nella realtà invece di trattarla come una cosa astratta dove condurre i propri giochi politici”

foreign policy, pochi giorni dopo, ha rincarato la dose criticando ferocemente anche l’altro pilastro della strategia bideniana: la guerra dei chip, che sarebbe

“un errore e danneggerà anche la stessa sicurezza americana invece che difenderla”

come chi ci segue sa ormai benissimo, gli USA hanno imposto sempre più restrizioni all’esportazione in Cina dei chip di ultima generazione, e anche di tutto quello che serve per produrseli da soli

ma secondo Foreign Policy in questo modo non fanno altro che accellerare la spinta della Cina verso l’indipendenza tecnologica

con 400 miliardi di chip importati l’anno, la Cina è l’eldorado di tutti i colossi internazionali del settore, che sono tutti saldamente dentro la rete di alleanze USA

se l’amministrazione Biden fosse minimamente lungimirante, dovrebbe continuare a permettergli di fare una marea di soldi vendendo chip in cina, e mettere poi qualche restrizione puntuale esclusivamente su quelle tecnologie che davvero minacciano la sua supremazia militare

con queste restrizioni generalizzate che vanno ben oltre il dominio prettamente militare, il rischio è che non solo la Cina acceleri lo sviluppo di tecnologie autoctone, ma che venga aiutata anche dalle aziende degli alleati, che farebbero di tutto per sviluppare tecnologie alternative a quelle col bollino USA per continuare a vendere al loro cliente migliore

l’esempio paradigmatico di come l’attuale strategia USA sta rischiando di creare una frattura profonda tra l’amministrazione e le grandi corporation che fino ad oggi sono state il suo punto di forza, è sviscerato in dettaglio in questo bellissimo articolo del financial times

il protagonista è Apple, che fino a qualche mese fa era sui giornali si e l’altro perchè stava delocalizzando dalla Cina all’India e al Vietnam. Un esempio eclatante della strategia USA del friendshoring, la delocalizzazione in paesi considerati amici

secondo il financial times, si tratterebbe di una grandissima fregnaccia

Apple infatti avrebbe investito una quantità di risorse senza pari per costruirsi un’intera filiera iperspecializzata di contractor e subfornitori completamente basata in Cina, dove, invece di limitarsi a esternalizzare pezzetti di produzione standardizzata al miglior offerente, “negli ultimi 15 anni apple ha continuato a mandare i suoi principali designer e ingegneri, tenendoli per mesi nelle fabbriche dei fornitori. questo personale ha collaborato gomito a gomito con i partner locali allo sviluppo dei processi produttivi. apple ha inoltre investito miliardi di dollari per personalizzare i macchinari impiegati, sviluppando competenze esclusive che i suoi rivali nemmeno conoscono, figurarsi se riescono a competerci”

dal 2008 ad oggi Apple avrebbe formato in Cina qualcosa come 23,6 milioni di lavoratori. “più della popolazione di taiwan”, sottolinea l’articolo

un investimento massiccio, che ha innalzato a dismisura le competenze di tutta la filiera, che oggi costituiscono “un ecosistema estremamente evoluto, che non esiste in nessuna altra parte del mondo”

“questo dominio cinese può essere anche quantificato. nel 2021, il numero di organizzazioni nel paese che sono state ispezionate per ricevere la certificazione di qualità ISO 9001 è stato di 426 mila 716 unità, il 42% del totale globale. In India sono state 36 mila. negli USA 25 mila”, precisa foreign policy

chissà se quando politici illuminati come Adolfo Urso parlano a vanvera di separare il blocco euro-atlantico dal resto del mondo questi numeri ce l’hanno presenti

secondo l’Economist, probabilmente no

“secondo i nostri calcoli”, scrive il periodico britannico, “duplicare gli investimenti nel campo dei semiconduttori, dell’energia rinnovabile e delle batterie elettriche per rilocalizzare le filiere in occidente costerebbe tra il 3,2 e il 4,8% del PIL globale”

cioè, poco meno di 5 mila miliardi: più del pil della germania. più del doppio di quello italiano

che poi oh, ce li mettesse l’1% più ricco della popolazione, noi non avremmo niente di ridire. disaccoppiate pure quanto vi pare, basta che vi frugate, e a noi ci va bene

ma vedrai che non sarà

ovviamente a tirar fuori i quattrini dovrebbero essere i governi, e con i tassi di interesse che ci sono oggi, vorrebbe dire pagare il decoupling che serve esclusivamente agli USA per mantenere il dominio globale con il taglio totale dei nostri servizi più essenziali

e poi se qualcuno si incazza: è arrivata la minaccia populista

fortunatamente, probabilmente, il costo del disaccoppiamento e della rilocalizzazione è semplicemente troppo alto per essere sostenuto dagli stati, e l’unico modo per dargli un minimo di concretezza è prevedere un lungo periodo di drastica riduzione dei profitti delle grandi corporation. che di solito, tendenzialmente, non è che ce n’abbiano tantissima voglia

e che al contrario del mondo del lavoro, hanno tutti gli strumenti per farsi sentire: “paesi come cina e russia rappresentano una minaccia profonda per l’ordine globale. La volontà delle democrazie occidentali di ostacolare economicamente gli avversari per ridurre tali pericoli è comprensibile. Ma avrebbe costi enormi. E potrebbe danneggiare i paesi amici tanto quanto i nemici. Questo approccio potrebbe riuscire come no a rendere il mondo un posto più sicuro per le democrazie. Sicuramente lo renderebbe più povero per tutti” (the economist)

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