di Nora Montella
Per “Stato Sociale” o “Welfare State” si intende quel sistema di regole e azioni politiche volte al mantenimento e miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, così da offrire a tutti i cittadini le medesime possibilità e ridurre le eventuali diseguaglianze presenti tra le varie classi sociali; il welfare ha, fin dalle sue origini, anche, o soprattutto, la funzione di riequilibrare quei rapporti impari all’interno dello Stato.
Lo stesso Bismarck, quando, nel 1881, decide di creare in Prussia le prime forme di assistenza per i lavoratori, i disoccupati, gli anziani e i malati, non lo fa con il solo fine di migliorare il benessere del suo impero, ma anche per reprimere le rivolte popolari che si muovevano in quegli anni in Europa guidate dai partiti socialdemocratici, a causa dei nuovi rischi emergenti e le nuove problematiche sociali provocate dalla forte industrializzazione.
Lo Stato Sociale viene dunque pensato come uno strumento per moderare e ridurre le diseguaglianze create dal sistema capitalistico, ma anche come una “pedina” da muovere a favore di una classe sociale o di un’altra.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Europa vive un periodo di massima espansione, sia a livello economico che a livello sociale, purtroppo come conseguenza del disfacimento portato dal conflitto appena terminato. «Le distruzioni avevano superato ogni immaginazione: erano rimasti sul terreno 50 milioni di morti; un numero incalcolabile di ponti, strade, ferrovie, case, stabilimenti, porti, erano fuori uso […]» (Corriere della Sera 13 marzo 2013, Quei gloriosi 30 anni di boom economico fermato dal petrolio).
Inoltre le industrie dovevano essere riconvertite, per prima cosa perché durante la Guerra erano state assunte le donne, che vengono licenziate appena terminato il conflitto, per essere sostituite nuovamente dagli uomini. Seconda cosa, le imprese dovevano essere trasformate da belliche a industrie di Pace. In Italia, l’accordo tra le imprese e il Governo nasce al termine del Primo Conflitto Mondiale: viene reso pubblico durante la campagna elettorale del 1924, quando Confindustria si schiera apertamente con Mussolini.
Jean Fourastié, economista francese, definisce il lasso di tempo compreso tra il 1947 e 1973, “Trente Glorieuses” perché, come viene spiegato nel testo “Stati di benessere e stati ambientali. Un quadro di riferimento per l’analisi comparativa”, l’ascesa dello Stato sociale europeo è causato dal boom del dopoguerra. Obinger e Wagschal dichiarano che: «I sistemi di welfare hanno registrato una notevole espansione in percentuale del PIL e molto di più in termini assoluti: nel 1980 la spesa sociale pubblica ha raggiunto in media il 17,5% del PIL nell’OCSE». In Italia, per esempio, in quegli anni, la classe operaia e quella studentesca lottano per l’ottenimento di molteplici diritti sociali, conquistandoli.
Dal 1970 vengono infatti approvate un’infinità di Leggi in attuazione della Costituzione italiana, ne elenco solo alcune tra le più importanti: la Legge 281, che istituisce le Regioni; la Legge 300, conosciuta come Statuto dei lavoratori e delle lavoratrici; la Legge 898 che introduce il Divorzio; la Legge 1044/71 che istituisce gli asilo nido pubblici; la Legge 1204/71 che tutela le lavoratrici-madri con permessi per la maternità e con il conseguente divieto di licenziamento in gravidanza; la Legge 161 del 1975 che delinea il Nuovo Diritto di Famiglia; la Legge 685/75 che permette di introdurre politiche di prevenzione e cura della tossicodipendenza; la Leggi Merli che tutela l’acqua dall’inquinamento; la Legge 903 del ’77 per la parità tra donne e uomini sul lavoro; la Legge 833/78 che elimina il sistema delle Casse Mutue per categorie di lavoratori, per sostituirlo con il Servizio Sanitario Nazionale; la Legge 194/78 che istituisce l’interruzione volontaria di gravidanza; la Legge Basaglia che chiude i manicomi; la Legge per l’Equo Canone, che non permette il superamento di una certa soglia del costo del canone di affitto; nel 1980 viene depositata in Parlamento la Legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale (diventata Legge nel 1996); nel 1981 viene approvata la Legge 442 che abroga il delitto d’onore e il matrimonio riparatore.
Il welfare in Italia sosteneva la prevenzione, i servizi pubblici e le pari opportunità, e la popolazione recepiva positivamente questo benessere crescente, che purtroppo dagli anni Ottanta viene fermato e fatto decrescere. L’attacco allo Stato Sociale inizia con le politiche neoliberiste di Margaret Thatcher in Inghilterra e Ronald Reagan negli Stati Uniti che tagliano gli investimenti pubblici per promuovere le industrie.
Qui nuovamente il welfare, essendo dipendente dalla politica che in quel periodo segue profondamente le logiche capitalistiche, viene ricalibrato sulle volontà di chi detiene il capitale e controlla l’economia. Riemerge dunque il ruolo di “pedina” dello Stato Sociale e si assiste così alla lenta distruzione di valori fondanti i paesi democratici e civilizzati e alla privatizzazione delle proprietà pubbliche. La spesa sociale viene considerata da questo momento un costo e non un investimento per il futuro; lo Stato appalta o vende ai privati i propri beni e servizi.
Anche l’Italia, dunque, subisce questo processo, le USL (Unità Sanitarie Locali) ne sono l’esempio. Queste vengono trasformate in Aziende Sanitarie Locali (ASL) tramite il Decreto Legislativo 229/99, proposto da quella che all’epoca era la ministra della sanità Rosy Bindi.
Il decreto inoltre, che aveva come obiettivo il contenimento delle spese sanitarie, prendendo a giustificazione la crisi finanziaria in corso da anni, riduce drasticamente il numero delle ASL da 659 nel ‘92 a 145 nel 2011.
Che conseguenze hanno i tagli alla Sanità? Ridurre i presidi sanitari su tutto il territorio nazionale e il numero degli addetti a tutti i livelli dell’assistenza (dai medici fino agli assistenti sociali), ha veramente effetti positivi sulla spesa e sulla salute pubblica? Direi che due anni di pandemia sono più che bastati per dimostrare l’inefficienza della sanità italiana.

Dal grafico prodotto dal Professor Mauro Maccari, ex dirigente dell’Azienda USL Toscana Nord Ovest, si può osservare come la spesa non sia calata negli anni per effetto delle politiche di austerity. Il Ministero della Salute rilascia dati sull’argomento: l’analisi della spesa pubblica sanitaria rivela che in Italia vengono destinati 34,9 miliardi di euro per gli stipendi e solo 31,6 miliardi per le medicine, anche se i farmaci, da sempre, sono una delle voci più importanti della spesa sanitaria dello Stato.
La spesa per la sanità in Italia è alta, i tagli fatti hanno colpito un settore strategico della medicina, ovvero quello della prevenzione, comprendente la disciplina dell’Igiene. La tabella che segue lo dimostra in modo plastico (Fonte Ocse, 2005-2011): l’Italia è, tra tutti i Paesi dell’Ocse, l’ultima nella classifica degli investimenti per la prevenzione delle malattie. Nessuno fa peggio di noi. Investire in prevenzione significa abbattere i costi che emergono nel momento in cui le malattie si manifestano nella loro gravità e, a quel punto, gli Stati sono costretti a spendere molto di più di quanto non avrebbero speso se avessero attuato campagne informative, visite gratuite di controllo e tutta quella serie di attività che servono per ridurre il rischio di contrarre una malattia e che rientrano nella Prevenzione Primaria.

L’Italia si colloca da tempo tra i paesi più longevi al mondo. L’Istat, dopo aver rilevato negli anni scorsi una flessione nell’aspettativa di vita, quest’anno ha sottolineato come la salute e la speranza di vita, siano diventate una questione demografica, con differenze nette tra il Nord e il Sud dell’Italia: nella provincia di Firenze la vita media è 84,1 anni (rappresentando il valore più alto registrato nel nostro paese) contro gli 80,7 anni della Campania (province di Napoli e Caserta).
A Taranto, in Puglia, si muore più che in ogni altra città pugliese, a causa di forme tumorali che colpiscono i polmoni, la pleura, la vescica, ecc. il cui nesso con l’inquinamento ambientale è più che documentato. Le cifre contenute nel Registro Tumori Jonico Salentino parlano chiaro: se la media regionale dei decessi è pari a 100, Taranto è a quota 117 per tutte le cause di morte, 129 per i tumori al polmone, a 474 per i tumori della pleura e a 124 per i tumori alla vescica. I dati confermano la persistenza di una condizione di rischio aumentato di sviluppare patologie neoplastiche e specificamente quelle per cui è nota e ampiamente consolidata l’associazione causale con fattori di rischio di tipo professionale e ambientale. Come è noto, dopo l’abitudine al fumo di sigaretta, i più importanti fattori di rischio per tumore polmonare sono le esposizioni ad inquinanti chimici di origine industriale, come gli idrocarburi.
L’ILVA di Taranto, indicata come causa principale dell’aumento dei tumori nella città, non ha ripercussioni solo sulla salute umana ma sull’intero ambiente. Infatti la forte industrializzazione non sostenibile, che avanza da anni, ha portato anche «cambiamenti climatici, che minacciano il benessere umano, non solo nel “qui e ora”, ma anche nello spazio in tutto il mondo, e temporalmente nel futuro, compreso il futuro lontano» (Centro di analisi dell’esclusione sociale).