1977: Sì, fummo sconfitti ma Berlinguer vide giusto
di Bruno Gravagnuolo tratto da l’Unità 1 febbraio 2007
ANNIVERSARI Parla Adalberto Minucci, allora segretario torinese del Pci e direttore di Rinascita: «Con la nostra forza di massa al culmine delle vittorie elettorali sconfiggemmo il terrorismo, ma il quadro internazionale fu più forte»
«Inutile negarlo, le difficoltà politiche ci furono, nel gestire l’ondata del 1977. E anche errori di analisi. Ma la linea di Berlinguer era giusta e la sconfitta venne per motivi di ordine internazionale». Parla Adalberto Minucci, maremmano di Magliano, 75 anni, all’epoca segretario della federazione di Torino del Pci, poi segretario regionale piemontese e infine direttore di Rinascita, ma ben dopo la cacciata di Lama dall’Università di Roma (17 febbraio). Osservatori privilegiati i suoi – Torino e Roma – e in più Minucci fu a lungo membro della segreteria nazionale del Pci, voluto da Berlinguer e in lotta contro Amendola e i riformisti, verso cui comunque ancora oggi nutre rispetto e stima («Amendola, dice, temeva “l’operaismo”, di cui mi riteneva un assertore, a motivo della sconfitta del biennio rosso nel 1920»). Bene, ma quali gli errori, e quali le ragioni «esterne» della sconfitta di Berlinguer e del compromesso storico?
Minucci, uscito nel 1990 dal partito contro la svolta Pds, la prende da lontano. Da Torino. «Innanzitutto – racconta – il periodo in questione coincide a Torino con il massimo di espansione del Pci, e ben per questo fronteggiammo con successo gli omicidi terroristici. Volevano intimidire le giurie popolari ai processi, ma riuscimmo a far passare una legge che proteggeva i giurati, e li facemmo celebrare quei processi. Eravamo padroni della città operaia, fortissimi ovunque, al centro, in periferia, in provincia. E ciò a partire dalla riscossa del 1965, dopo le batoste del 1955, quelle subite in fabbrica anche grazie all’azione antioperaia in Fiat di gente come Sogno e Cavallo. Una volta, dopo un’aggressione di Lotta continua contro la Fgci, gli operai scesero persino in sciopero. E creammo comitati operai contro il terrorismo». D’accordo, a Torino controllavate la situazione, dalla fabbrica alle istituzioni, specie dopo le vittorie elettorali del 1975 e del 1976. E però malgrado Torino, in Italia la situazione vi sfuggì di mano… «Sì, altrove le cose erano più difficili. Io vado a Roma, convocato da Berlinguer, per andare a dirigere l’Unità. Veto degli amendoliani e mi ritrovo direttore di Rinascita. All’Unità ci va Reichlin, e accetto la soluzione, comunque di prestigio. Alzai la tiratura a 80mila copie, con punte di 150mila, e una redazione splendida: Bruno Schacherl, Paolo Franchi, Angelo Bolaffi, Massimo Loche, Marcella Ferrara, Leonardo Paggi, che chiamai a collaborare, Massimo Boffa, Ottavio Cecchi». E a Rinascita che fai? «La apro agli intellettuali, ai movimenti, ai nuovi filoni culturali. Il primo speciale del Contemporaneo che feci fare si chiamava: “la società radicale”. E mandò in bestia tutti». Me lo ricordo, ci scrissi anch’io…«Ecco, cercammo di capire le ragioni di quel continente antagonista e refrattario, il suo immaginario sociale, le sue soggettività. Anche sullo sfondo della crisi di un certo marxismo, dei cosidetti nuovi bisogni…».
Già, Calvino, Cacciari, Rusconi, i discorsi su Weimar e la crisi di rappresentanza. La crisi del marxismo, la grande Vienna… Ma tutto questo non ti esime da una risposta più precisa: giusto il compromesso storico in quel clima? Asor Rosa ha sostenuto che il Pci era chiuso alla «seconda società» degli esclusi. E che la replica a quell’onda non poteva essere l’accordo Dc- Pci, che eccitava la protesta degli «esclusi». Bensì l’alternativa alla Dc. Tu che dici?«Non c’era alternativa a quella linea, unico sbocco possibile alle aspettative crescenti suscitate dalle nostre vittorie. E la novità stava negli “elementi di socialismo”: il governo politico dell’accumulazione. Sorretto da un forte ruolo pubblico e da una politica keynesiana incentrata su bisogni collettivi. La nostra era una politica radicale e non una tattica compromissoria, al di là del dato emergenziale: inflazione, stagnazione, terrorismo, crisi energetica. Di più, quella politica era l’unica in grado di farci incontrare il terzo e il quarto mondo, Willy Brandt e la sua socialdemocrazia…». Sta di fatto però che l’estremismo si impenna, la «seconda società» non capisce e alla fine ci si trova fuori dal governo, dopo il rapimento Moro. «Il partito era diviso, gli errori non mancarono, e Berlinguer si trovò a tratti isolato. Ma soprattutto eravamo stretti in una morsa formidabile da destra e da sinistra. E la morsa più forte era quella internazionale. Ci si impedì di governare! Fu Moro stesso, di ritorno dall’America, a chiedere cautela a Berlinguer, come lui mi disse: gli Usa, con Ford e Kissinger in testa, lo avevano diffidato dal farci entrare». Tutta colpa degli Usa, e magari dell’Urss? «Credo proprio di sì. L’uccisione di Moro, la sua fine, ancora ammantata di enigmi, servì a questo: estrometterci, privandoci di un interlocutore chiave. E poi c’è l’Urss, certo. Anche lì dentro c’era una lotta. Da una parte quelli come Gorbaciov che fin dal 1976 stravedevano per Berlinguer (proprio a me chiese di conoscerlo in Italia). E dall’altra i neobrezneviani, che non tolleravano uno scongelamento del quadro geopolitico. Poi ci fu quello strano incidente a Berlinguer in Bulgaria…». E il caso Lama, la polemica di Bufalini sul «diciannovismo» del 77? «Errore aver fatto entrare Lama all’Università in quelle condizioni, errore quella polemica. Ma giusta la linea di fondo: un mix di fermezza e di attenzione. Il terrorismo fummo in grado di batterlo, e grazie alla nostra forza di massa. Al resto, Moro in testa, davvero non c’era rimedio».
Sbagliata allora l’idea di un’alternativa, basata sull’accordo col Psi e magari su un’innovazione dell’identità comunista? «Dopo il 1976, non c’era maggioranza possibile, e uno sbocco politico dovevamo pur indicarlo a chi ci aveva votato. E poi, con Berlinguer all’apice del prestigio, un superamento dell’identità comunista era impossibile. Inoltre l’alternativa alla Dc avrebbe radicalizzato ancor di più tutto il quadro, accrescendo la pressione estremista e il ricatto Usa. Infine: sul Psi non potevamo contare. Craxi fin dall’inizio voleva piegarci. E fin dall’inizio si accordò con la destra Dc per scalzarci dal nostro ruolo e preparare la sua ascesa».
Obiezione: fino al 1979 il Psi parlava di contrasto al capitalismo. Teorizzava l’alternativa alla Dc. E nel 1981 il Psi offrì al Pci un’intesa: appoggio esterno alla premiership di Craxi. In cambio di un’inclusione del Pci al governo su punti programmatici comuni, e addirittura di un fronte comune, se la Dc avesse rifiutato Craxi premier. Non era meglio «andare a vedere»? «Impossibile. Dimentichi le polemiche di allora, gli attacchi a Berlinguer e a me personalmente: “Ucci ucci sento odore di Minucci”, come scrisse sull’Avanti! Una volta lo vidi in un camper – anche io! – e mi chiese di far fuori Berlinguer…». Però si poteva almeno tentare di tirare il Psi dalla nostra parte. Viceversa, anche dopo la fine della solidarietà nazionale, l’interlocutore del Pci restò sempre la Dc. «No, Craxi voleva ricacciare indietro il Pci, per questo si accordava con la destra Dc. Ed era un uomo spregiudicato che puntava ad espandersi al centro con tutti i mezzi. Era diventato il padrone del Psi. Inimmaginabile un’intesa». Torniamo allora al 1976-1979. Ebbene Moro parlava di «terza fase», dopo la Costituente e dopo la contrapposizione Dc-Pci. Che voleva dire? E Berlinguer che idea se ne era fatta? «Per Berlinguer “terza fase” significava una possibile evoluzione della Dc in direzione sinistra-centro. Verso un’alleanza stabile e organica tra Dc democratica e Pci. Con la Dc di destra fuori. Moro stesso diceva: “siamo interessati a un nuovo socialismo”. E Berlinguer lo prendeva in parola». Tiriamo le fila, Minucci. Niente autocritica sul 1977, se non nei dettagli. E riconferma della strategia del compromesso storico, fallita sugli scogli internazionali. E le critiche agli sprechi? Al corporativismo? Al massimalismo di quel periodo? Le critiche di Amendola, per intenderci? «Lui era un grande dirigente, segnato dall’esperienza catastrofica degli anni 20 e 30. Temeva la radicalizzazione dello scontro, l’isolamento operaio, come quando vinse il fascismo. E temeva l’inflazione. Avvertenze giuste le sue. Ma la radicalità nel 1977 era nei fatti, e quello di Berlinguer era l’unico modo per affrontarla». E qual era quel modo, economicamente ad esempio? «Austerity, obiettivi produttivi concordati con l’impresa, partecipazione del lavoro. Diverso modello di consumo. E dentro tutto questo c’era spazio anche per l’innovazione e la competizione sul mercato globale. Ci fu un momento in cui a Torino, con Volponi, ci incontravamo con Umberto Agnelli, a discutere di tutto questo. Poi, al culmine, fu ucciso Moro, e poi nel 1983 venne la sconfitta alla Fiat. Ma a quel punto la storia si era già rovesciata all’indietro».