tratto da Gazzetta d’Alba – 25 settembre 2022
LE STORIE Alba è una città internazionale. E, fino a domani, lo sarà a pieno titolo. Martedì scorso si è tenuta la sesta edizione della Global conference on wine tourism, voluta dall’Organizzazione mondiale del turismo. Per tutta la giornata, il teatro Sociale accoglie autorità ed esperti provenienti da tutto il mondo, per confrontarsi sul presente e sulle prospettive del turismo legato al mondo del vino, un indotto che da solo vale 2,5 miliardi di euro e che ogni anno sposta 14 milioni di persone.
È evidente che i territori con una vocazione enogastronomica sono sempre più attrattivi: lo dimostrano Langhe, Monferrato e Roero, diventati mete consolidate di enoturisti di lusso.
Le colline Unesco parlano inglese e tedesco, fanno affari oltreoceano e attirano persone da ogni dove. È un volto dell’albesità, la capacità di farcela, lavorando duramente, convintamente, sempre. Ma c’è anche un altro volto, assai meno radioso, eppure da mettere in luce. Chi sono gli uomini che popolano le colline nella stagione del lavoro? Quali sono i visi degli stagionali? Sappiamo che, senza di loro, non potremmo mantenere il nostro attuale tenore di vita? Li trattiamo in modo adeguato? Gazzetta d’Alba da tempo racconta le loro povere esistenze. Per incontrarli, è sufficiente camminare per le vie che circondano il centro di Alba, nel tardo pomeriggio. Sono africani, a piedi o in bicicletta, camminano veloce, con lo zaino in spalla. Alcuni si trovano alla fermata dell’autobus: hanno scarponi sporchi di terra e magliette sudate. Sono gli “invisibili” che lavorano i vigneti, appena tornati dalla vendemmia. Non è facile avvicinarli e tanto meno avere informazioni precise sulle loro condizioni di lavoro. A prevalere è ancora quasi sempre la paura di perdere l’occupazione.
Qualcuno, però, tra molti silenzi, sceglie di raccontare. «Ho appena finito la giornata in vigna», dice un ragazzo sui trent’anni, con gli occhi stanchi. «Vado a comprarmi qualcosa da mangiare e una bottiglia d’acqua, prima di tornare a casa». Chiediamo qualche informazione in più: «Lavoro tutti i giorni per una cooperativa, per nove o dieci ore, con una trentina di compagni. Guadagno sei euro all’ora, ma il mio contratto finirà a ottobre. La mia non è una situazione stabile: non è fissato un guadagno mensile, perché l’impegno non è garantito». Questo ragazzo è riuscito a trovare un alloggio insieme a due amici. «Uno di loro lavora in fabbrica e vive certamente meglio di me», precisa, per poi salire in bicicletta e andarsene.
Di fronte al cimitero, sempre alla stessa ora, si notano altri braccianti di origine africana. Arriva di colpo un’auto, scendono quattro persone: salutano, recuperano gli zaini dal baule e siedono sulla prima panchina libera. Sono tutti nigeriani, ma anche questa volta solo uno è disposto a parlare. «Anche noi lavoriamo sulle colline, ma arriviamo da Torino: ogni giorno prendiamo il pullman per Alba e la sera torniamo a casa», dice un ragazzo. «Quanto guadagno? Tra cinque e sei euro l’ora: è poco, ma a Torino non si trova niente da fare. Ci accontentiamo». Quando gli chiediamo se ha un contratto, diventa sospettoso e preferisce chiudere il discorso.
Un altro punto nevralgico rimane la stazione. Verso le 18.30, i braccianti africani si muovono tra la folla di pendolari e turisti. Le auto di alcune cooperative sono ferme sul piazzale e forse per questo è difficile trovare qualcuno disposto a raccontare. Fino a quando incontriamo un ragazzo che parla solo inglese: la sua terra è il Gambia, è sposato e ha un figlio di otto anni, che non vede da molto tempo. La sua storia è quella di molti migranti: arrivato in Italia su un barcone, si è spostato al Nord. A Bra ha lavorato per anni per una cooperativa. Poi, il contratto è terminato e ha dovuto lasciare anche la casa. La vendemmia gli è sembrata l’occasione giusta: «Il mio capo? L’ho conosciuto alla stazione. Guadagno cinque euro all’ora, ma senza contratto». È stato reclutato più di un mese fa, da quando è iniziata la stagione della raccolta, ma dice di non essere stato ancora pagato. Mentre camminiamo con lui verso via Pola, dove si trova il Centro di prima accoglienza della Caritas, apre una bottiglietta d’acqua. «L’ho comprata poco fa: il padrone mi fa pagare anche il cibo e l’acqua», precisa. La sua è certamente un’Alba molto diversa rispetto a quella che conosciamo: prima di approdare da don Gigi Alessandria, per tre settimane, ha dormito all’addiaccio, su una panchina, di fronte ai binari. «Una volta sono arrivati due poliziotti, i quali mi hanno detto che non potevo rimanere lì: quando se ne sono andati, sono rimasto».
Ha vissuto così questo ragazzo, mangiando e dormendo sulla stessa panchina, cambiandosi dietro a una siepe, senza mai farsi una doccia. «Al capo non interessa dove dormo. Gli interessa solo che non parli», dice ancora, quasi tra sé.