di Nora Montella
In Occidente, nello specifico nelle società capitalistiche europee, le diseguaglianze di genere permeano in ogni spazio e in ogni dimensione, assumendo sfumature differenti.
Si passa dal linguaggio ai comportamenti sociali, riducendo spesso le relazioni a dinamiche di potere e controllo, limitando quindi le libertà individuali.
Le donne, succubi di un mondo tutto al maschile, fin da piccole subiscono un continuo riadattamento del proprio “Io” agli schemi imposti dal sistema. Schemi che derivano da secoli, anzi millenni, di società organizzate per escludere le donne dalla partecipazione attiva; partendo dai Greci e arrivando fino al 2022. Infatti la subordinazione della donna alla figura maschile persiste tutt’oggi, sono solo cambiate le dinamiche con cui si attua tale sottomissione.
Per discriminazione di genere si intendono la miriade di costrutti sociali e culturali, rafforzati continuamente dalla riproposizione di figure femminili e maschili stereotipate, che innescano un meccanismo vizioso che blocca l’emancipazione, limitando così lo sviluppo sociale di entrambi i sessi.
Il Genere è “quell’insieme di processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti con i quali ogni società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro“.
Piccone Stella, Saraceno 1996
Fin dall’infanzia veniamo abituate a pensare come gli altri ci vedono. Mi spiego meglio.
I giocattoli (la bambola, il passeggino, la cucina), i colori che indossiamo, i ruoli che ci vengono insegnati e gli atteggiamenti sociali predefiniti sono carichi di un significato sociale profondo, carichi di un valore societario che potrebbe risultare nascosto, ma che in realtà ogni giorno crea degli squilibri tra le identità di uomini e donne. Gli uomini, infatti, non sono considerati idonei alla crescita dei figli o allo sviluppo della conoscenza della gestione delle emozioni; non a caso i loro giochi comprendono la violenza (non l’accudimento), la spericolatezza e l’irresponsabilità. Le bambine vengono trattate e considerate adulte, dunque più mature degli uomini, fin da subito. Molti studi statunitensi confermano che le ragazzine iniziano a vestirsi da sole circa due/tre anni prima rispetto ai loro coetanei.
La cultura che permea nella nostra società, i valori che riceviamo, dunque l’ambiente in cui ci sviluppiamo, indirizzano la nostra identità in una direzione invece che in un’altra. Bambini e bambine, dall’età di cinque anni, è scientificamente provato che ricerchino informazioni sui ruoli in famiglia, a scuola, con i coetanei perchè per comprendere loro stessi hanno bisogno dell’altro. Non a caso, durante la crescita acquisiranno sempre più conoscenze relative alla società in cui vivranno e su come viverci al proprio interno secondo le norme sociali prestabilite. Norme che però, non tutti apprezzano o sentono proprie.
Ma non solo i giochi orientano negativamente le nostre identità; gli agenti di socializzazione che giocano sugli stereotipi di genere sono differenti. Tra questi abbiamo la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari e mass media. Infatti anche in famiglia, la diversificazione dei ruoli è basata sul genere; le donne si occupano per molte più ore degli uomini delle cosiddette “faccende di casa”, avendo così meno tempo libero a disposizione rispetto agli uomini e quindi limitando la vita sociale e personale delle donne. Le ricerche dell’Istat dimostrano che il 70% del carico lavorativo domestico (cura dei figli e della casa) è in mano alle donne, e solo il restante 30% è affidato agli uomini: questo vuol dire che su 24 ore giornaliere, le donne dedicano più di 5 ore al giorno alla cura in generale, gli uomini a malapena 2 ore e mezza. Inoltre, in Italia le donne assolvono ad un carico di lavoro familiare particolarmente gravoso rispetto ad altri paesi europei, come, per esempio, la Svezia. Questi dislivelli vengono rafforzati anche dal sistema giuridico, infatti se analizziamo i dati riguardanti l’affidamento dei figli dopo le separazioni o i divorzi, la madre è al 99% la figura principale per l’accudimento e la crescita della prole.
Come già spiegato in precedenza, le diseguaglianze di genere hanno un percorso millenario.
Nella penisola italiana, le donne, soltanto nel 1874, potranno iniziare ad accedere alle Università, anche se, a livello pratico, continuarono ad essere scoraggiate le loro iscrizioni. Nel 1900 risultano iscritte: 250 donne all’università, 287 ai licei, 267 alle scuole magistrali superiori, 1178 ai ginnasi e quasi 10.000 alle scuole professionali e commerciali. Nel 1914 le iscritte agli istituti superiori (compresi gli istituti tecnici) diventano circa 100.000, mentre dal 1994 il numero delle laureate supera quello dei laureati. Questo a dimostrare che, per quanto le donne siano sempre state segregate ad un solo ambito, hanno in realtà mille sfaccettature differenti e quindi lo sviluppo della figura femminile procede strettamente connessa all’avanzamento culturale della società in cui vivono.
“Il cambiamento di un’epoca storica si può definire sempre dal progresso femminile verso la libertà perché qui, nel rapporto della donna con l’uomo, del debole col forte, appare nel modo più evidente la vittoria della natura umana sulla brutalità. Il grado dell’emancipazione femminile è la misura naturale dell’emancipazione universale“.
Charles Fourier, filosofo francese 1772-1837
Anche all’interno delle istituzione scolastiche l’educazione trasmessa si basa su principi sessisti e dunque diseguali. I libri di testo ripropongono infatti immagini stereotipate della realtà femminile e maschile, rappresentando donne dedite alla vita casalinga e alla cura dei figli, e uomini avventurosi che si occupano invece della vita sociale e lavorativa. Insomma, le immagini sociali riproposte anche in questo caso non corrispondono al reale. Le donne infatti sono ormai da anni inserite nella vita sociale del paese, anche se, in modo differente rispetto agli uomini, ma, vengono comunque raffigurate esclusivamente in ambito domestico. Facciamo un esempio. Sono stati condotti, di recente, studi sugli albi illustrati, dunque sui libri di testo su cui vengono educate intere generazioni di bambini e bambine. La donna è SEMPRE raffigurata con il grembiule, poiché viene considerato il simbolo principale del ruolo femminile, ovvero il lavoro domestico e la cura dei figli. Il ruolo del grembiule non è quello di proteggere gli abiti, ma di sottolineare e confermare un ruolo sociale ben specifico e definito. E il marito, invece? Come viene rappresentato? Mediamente gli uomini, stanchi dalla lunga giornata lavorativa, li troviamo raffigurati seduti sulla poltrona mentre leggono un giornale o guardano la televisione. La poltrona su cui siedono non è una semplice poltrona, ma una massiccia quasi quanto un trono, a simboleggiare il potere domestico che l’uomo possiede. Paradossalmente il lavoro del padre è rappresentato dal suo riposo. La televisione o il giornale riassumono tutto ciò che concerne il mondo fuori dalla casa, come la politica, la cultura o lo sport – ambienti dominati tradizionalmente dagli uomini, in cui sovente le donne si sentono fuori posto e disorientate.
“Lo sguardo maschile è talmente pervasivo che le donne finiscono per introiettarlo e guardare se stesse (e le altre) con quegli occhi”.
articolo T come Tette di Graziella Priulla, 2019
Dai dati a disposizione, risulta che, anche nel mondo del lavoro, le donne subiscono una segregazione occupazionale, quindi sono presenti in modo minoritario nel mercato del lavoro rispetto agli uomini, anche se numericamente nella popolazione mondiale le donne sono in maggioranza. Una donna su quattro, rileva l’Istat, ha subito mobbing a lavoro da parte di uno o più superiori, di sesso maschile. Dinamica a cui gli uomini non sono sottoposti. Per quanto riguarda i ruoli occupazionali, nello specifico quelli di comando, come la politica, le donne risultano essere una percentuale irrisoria, solo l’11%. Ma la discriminazione non finisce qui poiché è trasversale, colpendo quindi in ogni direzione. Anche le cariche per cui vengono assunte sono meno rilevanti rispetto al sesso opposto.
Ancora nel 2020, una donna e un uomo che svolgono la medesima mansione hanno uno stipendio differenziato del 30%, questo vuol dire che se venissero assunti entrambi per fare i camerieri, l’uomo guadagnerebbe 1000 euro e la donna solo 700. Ma questa dinamica discriminatoria avviene anche a livelli più alti della società, infatti la famosa attrice del film Harry Potter, Emma Watson, ha sottolineato come nel mondo del cinema si manifesti lo stesso fenomeno sociale. La cosa assurda è che le donne ottengono risultati maggiori a livello scolastico, dunque abbiamo più laureate che laureati e oltretutto con voti molto più alti rispetto ai colleghi maschi. Quindi qual è il motivo che mantiene vive le discriminazioni di genere? In primis, il sistema economico in cui viviamo. Il capitalismo infatti, da due secoli ormai, riproduce questi fenomeni proprio perché sono funzionali al sistema stesso, per esempio, per la questione del profitto. Pagare meno le donne e mantenerle escluse dalla vita sociale porta ad un guadagno economico non indifferente. Ma la stessa organizzazione societaria sottolinea questa differenziazione dei ruoli e delle possibilità sociali, limitando l’emancipazione di entrambi i sessi. Dunque solo un cambio della gestione e della pianificazione della società potrebbero offrire possibilità migliori e alternative agli individui.