lunedì, Settembre 25

DALLA PARTE DELLE DONNE

di Nora Montella

Nella relazione che segue verranno brevemente illustrati quanti e quali condizionamenti hanno agito e agiscono nel determinare il ruolo sociale della donna nelle moderne società occidentali.

Attorno ad esse è stato costruito un sistema di regole e proibizioni atto a impedire l’esplicarsi delle loro possibilità in moltissimi campi; per credenze popolari o pseudo-scientifiche il genere femminile ha trovato spesso le porte sbarrate nello studio delle arti figurative, della letteratura e delle materie scientifiche che, oltre a impedirne la partecipazione come soggetti attivi, non le consideravano neanche come potenziali oggetti di studio.

Chiuse tra le quattro pareti di casa, considerate “funzionalmente” adatte solo ad accudire la prole e a occuparsi dell’ambito domestico, sopra le loro teste, sopra i loro corpi e le loro aspirazioni si sono sviluppate teorie scientifiche che non è estremista definire “surreali” e contenitive.

Talcott Parsons (1902-1979), sociologo statunitense, elabora la teoria della differenziazione dei ruoli sociali nella famiglia, affermando che sono necessari al suo interno due adulti che sappiano svolgere ruoli diversi in base al loro sesso. Tale considerazione struttural-funzionalista dell’autore nasce dallo studio di una società in continua e inarrestabile evoluzione, nella quale vuole ricercare le forze dirette all’equilibrio e alla conservazione della società stessa: da qui l’interesse per la famiglia poiché ritenuta da Parsons l’unica istituzione che può mantenere l’ordine sociale ed economico grazie alla trasmissione tra genitori e figli di uno specifico sistema valoriale, considerato necessario per la continuazione del capitalismo. Proprio questi ruoli teorizzati da Parsons hanno permesso l’esclusione delle donne dalla vita quotidiana nelle società odierne; ruoli nati nel periodo dell’industrializzazione, quando la famiglia cessa di svolgere le funzioni riproduttive e produttive assieme, ma è costretta a separarle. Nascono infatti le fabbriche frequentate però quasi esclusivamente da uomini dove le poche donne, o i bambini, spesso orfani, che vi lavoravano erano ai margini della società poiché doppiamente sfruttati in quanto meno retribuiti e quindi maggiormente a rischio povertà e isolamento, e destinati a una vita senza istruzione dunque senza prospettiva di emancipazione.

L’esclusione femminile dalla società capitalistica in atto dalla prima rivoluzione industriale (1750) riguardava in modo trasversale le donne di ogni ceto sociale, da quelle più povere a quelle borghesi, ovviamente con dinamiche completamente diverse. Le figlie della borghesia europea o statunitense avevano la possibilità di istruirsi grazie a maestri privati o tramite la lettura delle opere raccolte dal padre nella biblioteca di famiglia. La maggior parte di loro però non partecipava attivamente alla vita pubblica, non lavorava o non conseguiva nessuna sorta di titolo scolastico e le poche che provavano comunque a scoprire quei mondi considerati per anni riservati ai soli uomini, trovavano immense difficoltà e ostacoli a partire da quelli posti dalla famiglia di appartenenza. Friedrich Engels (1820-1895) sottolinea nel suo testo L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato come questo rapporto ìmpari, soprattutto nelle classi sociali abbienti abbia creato una donna «serva» poiché «esclusa dalla partecipazione alla produzione sociale». Continua dicendo: «nella famiglia egli [il marito] è il borghese, la donna rappresenta il proletario».

Anche Maria Tecla Artemisia Montessori (1870-1952), terza donna laureata in medicina in Italia, pur riuscendo a raggiungere la laurea, viaggiare e praticare la professione che aveva sempre desiderato – dovette affrontare per anni un padre che le rimproverava di non aver scelto come lavoro quello della maestra, considerato più adatto alle caratteristiche “naturali” di una fanciulla del tempo, e pretendeva di accompagnarla da casa alla sede universitaria di medicina ogni qualvolta avesse avuto lezione, poiché l’università romana era frequentata soprattutto da uomini e il padre non poteva accettare tutto questo.

Un altro esempio, anche se più datato del precedente, è quello di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia (1646-1684), prima donna laureata al mondo che – dopo aver studiato teologia – potette ricevere la laurea solo in filosofia poiché Gregorio Barbarigo, vescovo di Padova, si oppose in quanto «la donna è inferiore rispetto all’uomo e non è capace di ragionamenti difficili». Questo pregiudizio che agli occhi di noi moderni sembra assurdo e superato, è ancora ben diffuso anche tra il ceto politico, che invece dovrebbe rappresentare un’avanguardia intellettuale della popolazione: basti vedere il caso dell’eurodeputato polacco Janusz Korwin-Mikke che quest’anno, durante un dibattito sull’uguaglianza di genere in sede europea, è riuscito a dichiarare che è giusto che le donne guadagnino meno, in quanto «più deboli, più piccole e meno intelligenti» portando come giustificazione alla sua “tesi” la poca partecipazione femminile alle Olimpiadi di fisica e ai tornei di scacchi.

Evidentemente sia gli uomini che le donne hanno ancora un lungo cammino da percorrere (assieme) per conseguire una reale emancipazione ed un’effettiva eguaglianza tra i sessi, ma si possono notare già degli interessanti mutamenti sociali, per esempio nell’aumento di iscrizioni alle facoltà scientifiche da parte delle giovani. Come riportato nello studio pubblicato nel 2010 da Rita Biancheri e Claudio Casarosa, presidente del Cisia (Consorzio interuniversitario sistemi integrati per l’accesso dell’Università di Pisa): «Negli ultimi 10 anni si è registrato un vero e proprio boom del numero di donne che ha scelto l’ingegneria come percorso di studio e come professione: dall’entrata in vigore della riforma universitaria nel 2001 il numero di iscritte alla facoltà di Ingegneria di Pisa è passato da 1781 a 2743, con una presenza superiore a quella maschile in alcuni corsi di laurea: nell’anno accademico 2009/2010, ad esempio, le iscritte alla laurea triennale di Ingegneria biomedica erano 221, contro i 184 colleghi maschi e le ragazze iscritte alla laurea a ciclo unico in ingegneria-architettura erano 200 contro 162. […] Se andiamo a verificare le motivazioni di carattere più strumentale, scelte da circa un quarto del campione, risulta interessante, per quanto riguarda i maschi, la preferenza significativa dell’item “facilità nel trovare lavoro”, indicata al primo posto dal 21% dei maschi e solo dal 14% delle femmine. Ragazze e ragazzi sono ugualmente spinti dalla volontà di studiare materie interessanti e dal seguire le proprie attitudini, mentre le ragazze vedono maggiormente come obiettivo “l’affermazione sociale”».

Per più di due secoli, prendendo come data di riferimento il 1750, le donne sono state considerate inadatte e naturalmente instabili (poiché troppo sensibili ed emotive) per affrontare la moderna società occidentale industrializzata. Esse venivano colpevolizzate, spesso in modo inappropriato e ingiusto, sia da istituzioni come quella ecclesiastica che dalle scienze ottocentesche; quest’ultime erano infatti limitate e basate su studi pieni di preconcetti proprio perché svolti quasi esclusivamente da uomini e con l’obiettivo di trovare conferme ai ruoli predeterminati.

La scienza considerava le donne responsabili della trasmissione del sesso al nascituro, che doveva essere preferibilmente maschio: nel caso avessero messo al mondo solo figlie femmine, poiché erano gli uomini a poter ereditare le piccole o grandi fortune guadagnate dai parenti durante la propria vita, rischiavano perfino di essere cacciate di casa. Solo nel 1956 si è giunti alla scoperta scientifica del gene TDF (Testis determining factor) presente negli spermatozoi e che determina appunto il sesso del nascituro. Possiamo dire che questa scoperta ha sfatato anni di leggende e discriminazioni sulle donne, che vivevano sofferenze infernali a causa dello stress sociale prodotto da aspettative culturali malsane, legate alla trasmissione della proprietà per discendenza maschile.

Il matrimonio e la maternità sono stati considerati elementi centrali, inevitabili e indiscutibili nella vita delle donne almeno fino al secondo dopoguerra. Un caso esplicativo delle difficoltà vissute dal genere femminile nel percorso di emancipazione sia lavorativa che dal ruolo “predestinato” di moglie e poi madre, è quello dell’artista Mary Cassatt (1844-1926). Nata in Pennsylvania da una famiglia benestante, studia privatamente le arti figurative in Francia dove non le fu permesso in quanto donna di iscriversi all’École des Beaux-Arts di Parigi. Proprio in questa città divenne amica e allieva di Edgar Degas, famoso impressionista, che la aiuterà a esporre i suoi lavori. Dichiarando nei suoi scritti che la sua carriera lavorativa non era compatibile con l’avere una famiglia, per scelta non si sposerà e non avrà figli, ma le tematiche che rappresenterà saranno quelle relative al rapporto madre-figlia, dalla più tenera età all’adolescenza. Oltre all’ostacolo incontrato nell’accesso al corso di studi, trovò molte difficoltà anche nel ricevere riconoscimenti economici per le sue opere, inoltre dovette combattere la fortissima opposizione del padre che non accettava il percorso intrapreso dalla figlia poiché condizionato dalle idee maschiliste dell’epoca e preoccupato che Mary potesse entrare in contatto con i rivoluzionari principi femministi che cominciavano a prendere piede sia nella società statunitense – si pensi al “Women’s Rights Convention” del 1848 a Seneca Falls – che in Europea, specialmente sulla questione del suffragio universale. Come il padre aveva previsto, l’artista nel corso della sua vita abbraccerà la causa del voto alle donne e nel 1915 presenterà 18 opere a un’esposizione organizzata per supportare il movimento suffragista.

Un pensatore ottocentesco che affiancò e sostenne la rivoluzione culturale portata avanti dalle donne fu John Stuart Mill, come ricorda Elena Gianini Belotti nel fondamentale saggio Dalla parte delle bambine (1973): «Nel suo libro La soggezione delle donne pubblicato nel lontano 1869, John Stuart Mill fu il primo a mettere in discussione il concetto di natura femminile, con il quale venivano contrabbandati quei caratteri ritenuti peculiari della donna, per dimostrare invece come essi fossero il logico prodotto di un preciso contesto storico, culturale e sociale. Nella sua lucida e appassionata difesa della donna Mill invoca l’intervento della psicologia affinché studi analiticamente: “le leggi che regolano l’influenza delle circostanze sul carattere. È d’uopo possedere la più approfondita cognizione delle leggi della formazione del carattere per aver diritto di affermare che v’ha una differenza ed a più forte ragione per dire qual è la differenza che distingue i due sessi dal punto di vista intellettuale e morale”. Oltre ad analizzare le influenze educative, Mill indica la via più semplice e sicura per giungere a una conoscenza della donna che non sia, come spesso è, il riflesso della visione che l’uomo ha di lei: cioè quella di chiederlo direttamente all’interessata. Ma acutamente osserva che condizione essenziale perché la donna accetti di parlare di sé, di descriversi, di esporsi, è che non si senta subordinata ma uguale».

Mill, influenzato dalla femminista Harriet Taylor che diventerà in seguito la sua compagna di vita, spiega che l’educazione e i costumi di un popolo condizionano il vissuto delle persone, specialmente delle donne che non riescono a conquistare una propria autonomia, né economica né affettiva, a causa della dipendenza dal marito.

Anche se sono trascorsi quasi 150 anni da quando Mill scriveva questi testi, la completa parità tra i sessi non è ancora stata raggiunta poiché il sistema economico capitalistico impedisce alle donne di raggiungere un’indipendenza oggettiva. Esse infatti, anche se più istruite e più qualificate, è più difficile che vengano assunte e guadagnano mediamente il 30% meno degli uomini, anche quando svolgono la medesima mansione. Sul mensile Le Scienze di novembre 2017, dedicato alle questioni di genere, Marco Cattaneo riporta i seguenti dati: «…l’Italia è per esempio l’unico paese in cui il numero di donne che hanno conseguito un dottorato è superiore a quello degli uomini. […] Se poi si guarda ai valori assoluti, nelle università italiane le donne sono ancora meno del 25 per cento tra i professori ordinari, mentre hanno superato il 50 per cento tra gli assegnisti».

Per concludere vorrei sottolineare come la parità tra i sessi non sia una tematica risolvibile individualmente ma siano necessari interventi parlamentari che mettano in campo politiche sociali di ampio orizzonte e iniziative culturali mirate, che partano dalle scuole primarie fino ai gradi superiori dell’istruzione. Ovviamente se l’obiettivo prefissato è un mutamento profondo della società, per stravolgere gli assetti fino ad ora esistenti devono essere sradicati tutti gli stereotipi e le immagini negative e mortificanti che sottraggono la possibilità alle donne di creare una loro identità, alternativa a quella imposta, anche subdolamente, dal sistema capitalistico. Anche gli uomini, devono rifiutare la raffigurazione falsata delle donne e del loro corpo che viene propagandata dai mass media, sfuggendo così dai vincoli che sottraggono la libertà ad entrambi.

Parafrasando Charles Fourier non si può avere una società realmente avanzata senza l’emancipazione della donna. In questo senso dobbiamo chiedere l’applicazione della Costituzione italiana che prevede al comma 2 dell’articolo 3 l’eguaglianza sostanziale, dunque che la Repubblica debba intervenire per: «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

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